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La crisi libica e le ripercussioni nel settore energetico

La Libia è in crisi e chi ne risente per primo è il settore della produzione petrolifera, con effetti diretti sul mercato globale. Il punto di Daniele Ruvinetti

Hussein Eddeb / Shutterstock.com

La Libia è in crisi e chi ne risente per primo è il settore della produzione petrolifera, con effetti diretti sul mercato globale. Infatti, i futures sono tornati a salire (sopra i 113 dollari al barile per la prima volta da marzo) dopo le notizie delle chiusure di due grandi campi di produzione, Sharara ed El Feel, e di due porti nella Mezzaluna petrolifera.

Conseguenza dello stallo istituzionale in corso da settimane, che potrebbe rivelarsi una bomba pronta a esplodere con effetti difficilmente controllabili. La National Oil Corporation si è trovata costretta ad applicare la clausola della "forza maggiore" per chiudere gli impianti dopo che gruppi organizzati hanno messo in piedi manifestazioni per bloccare i lavori, chiedendo la fine dell'attuale esecutivo.

Per chiarire meglio la situazione, può essere utile fare un rapido excursus dei fatti più recenti. In Libia c'è un proto-governo, che ha ricevuto la fiducia parlamentare due mesi fa sotto il mandato affidato a Fathi Bashaga, che non è ancora però riuscito a insediarsi. A Tripoli, l'esecutivo uscente, sotto la guida di Abdelhamid Dabaiba, non intende lasciare gli uffici governativi. Dabaiba rivendica un incarico ricevuto dall'Onu con il compito di organizzare le elezioni (presidenziali e parlamentari) il 24 dicembre 2021. Obiettivo fallito, rinviato di un mese e poi fallito ancora: su questo la Camera dei Rappresentati ha sfiduciato Dabaiba e votato la fiducia a Bashaga (che si è dato un anno e mezzo per portare il Paese al voto).

Chi ha bloccato i pozzi adesso – ascrivibile al mondo dell'uomo forte di Bengasi, Khalifa Haftar, parte dell'accordo est-ovest alle spalle di Bashaga – agirebbe così perché vuole l'ingresso a Tripoli del nuovo primo ministro. E usa il petrolio, il fattore di ricchezza del Paese, i cui proventi andrebbero suddivisi in forma equa – secondo un accordo del settembre 2020, che ha permesso il riavvio delle produzioni dopo mesi di chiusura degli impianti durante l’ultima guerra civile. Bashaga viene ritenuto più affidabile da coloro che lo sostengono per portare avanti questa equa suddivisione degli introiti petroliferi secondo i bisogni delle varie regioni libiche.

La situazione è piuttosto tesa. Il rischio che si possa passare al confronto armato esiste, se si considera che già nei giorni scorsi ci sono state manovre da parte di chi cerca di gettare benzina sul fuoco (alcune milizie tripoline che per interesse adesso sostengono Dabaiba, per esempio) e già nelle scorse settimane si è arrivato a un primo, limitato scontro.

Da tempo si sostiene che la Libia ha bisogno di aiuto, perché vive una situazione altamente critica. Non era difficile prevedere che queste tensioni sarebbero solo peggiorate senza una soluzione concertata. Egitto, Qatar, Turchia, Tunisia e Algeria stanno facilitando incontri e cercando di risolvere lo stallo in modo fluido, senza contrasti e soprattutto senza che la soluzione si porti dietro rancori che possano riaccendere nel medio-breve periodo ulteriori scontri – anche sfruttando una fase di distensioni nelle relazioni reciproche, che in passato avevano sfogato tensioni proprio sul teatro libico.

Quello che servirebbe potrebbe essere anche un ruolo diplomatico e politico giocato con maggiore coinvolgimento dall’Europa. Come dimostrano i fatti, l’UE avrebbe un primario interesse ad essere della partita. Il piano di differenziazione dagli approvvigionamenti energetici dalla Russia può funzionare solo se si tratta il tema con profondità. Ossia diventa chiaro quanto sia necessario creare un approccio quadro, che si prenda cura anche delle necessità di stabilizzazione in Paesi come la Libia.

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