La geometria del potere: l’incontro tra Trump ed Erdoğan a Washington
Dopo anni di tensioni e reciproche diffidenze, Washington e Ankara tornano a parlarsi da pari. Il punto di vista di Settimo Cerniglia

L’incontro del 25 settembre alla Casa Bianca tra Donald Trump e Recep Tayyip Erdoğan segna non soltanto la ripresa di un dialogo bilaterale, ma il tentativo di ridefinire i nuovi equilibri del potere nel Mediterraneo e nel sistema euro-atlantico.
Non si tratta di un semplice vertice diplomatico. È un gesto politico, calibrato come solo gli americani sanno fare: ogni dettaglio – la sedia avvicinata nello Studio Ovale, il modellino Boeing sul tavolo, il distintivo d’aereo sulla giacca di Trump – parla di interessi concreti, alleanze flessibili e di una volontà comune di tornare a fare affari. Dietro la coreografia si intravede una strategia: contenere la Russia, controllare la Cina, reintegrare la Turchia nel perimetro occidentale senza costringerla a rinunciare alla propria autonomia. Per sei anni i due Paesi avevano percorso traiettorie divergenti. L’acquisto turco dei sistemi missilistici russi S-400, l’esclusione dal programma F-35 e le frizioni sulla Siria avevano congelato un rapporto storicamente fondato sull’interdipendenza strategica. La presidenza Biden aveva preferito il linguaggio dei diritti umani e del deconsolidamento democratico, lasciando sospesi i dossier militari e industriali. Trump, invece, ragiona in termini transazionali: scambia legittimità per cooperazione, accesso ai mercati per fedeltà tattica. Erdoğan comprende questo linguaggio e vi si muove con abilità. Dietro le formule di amicizia personale si nasconde un calcolo geopolitico. Trump e Erdoğan condividono un approccio decisionista, basato sul rapporto diretto e sulla negoziazione continua. Entrambi vedono il mondo come una somma di transazioni, non di trattati. Per il presidente turco, riavvicinarsi a Washington significa riequilibrare la propria postura internazionale dopo anni di oscillazioni tra Mosca, Pechino e il Golfo. Per Trump, mantenere la Turchia nell’orbita americana è un modo per riaffermare il primato statunitense in uno spazio eurasiatico sempre più competitivo. Come ha osservato l’ambasciatore Tom Barrack, “non è una questione di S-400 o di F-16, ma di legittimità”. È precisamente questa legittimità, riconosciuta pubblicamente nello Studio Ovale, che Erdoğan cercava da tempo. E che Trump, pur senza concessioni immediate, ha voluto concedere con un gesto simbolico.
Il vertice ha affrontato i dossier centrali: rimozione delle sanzioni CAATSA, reintegro nel programma F-35, ammodernamento della flotta di F-16, cooperazione sul nucleare civile e fornitura di LNG americano. Ankara punta a riottenere accesso ai componenti tecnologici statunitensi per alimentare il proprio programma di difesa nazionale, in particolare lo sviluppo del caccia di quinta generazione Kaan. Washington, in cambio, vuole una Turchia meno dipendente dal gas russo e più allineata alle priorità strategiche della NATO. La logica è chiara: trasformare le frizioni in leva negoziale, ridefinendo il rapporto non più in termini di subordinazione, ma di scambio tra pari. Le implicazioni del vertice vanno ben oltre la dimensione bilaterale. Il disimpegno americano dal Medio Oriente e la guerra in Ucraina hanno riacceso la centralità geopolitica della Turchia, tornata a essere “il ponte” tra Europa, Russia e Asia. Washington ha bisogno di Ankara come attore di equilibrio nel Mar Nero e nel Levante; Erdoğan, a sua volta, ha bisogno del riconoscimento americano per legittimare il proprio ruolo di potenza regionale autonoma. Nelle ultime settimane Ankara ha intensificato l’addestramento delle forze di sicurezza siriane, agevolando un parziale disimpegno statunitense dal nord-est del Paese. In parallelo, prosegue il riavvicinamento energetico con gli Stati Uniti: un accordo ventennale per l’importazione di LNG e un’intesa sul nucleare civile riducono la dipendenza turca da Mosca. Ma l’effetto più interessante del vertice si coglie guardando ai Balcani. Là dove la geopolitica è fatta di simboli e percezioni, l’immagine di Erdoğan seduto accanto a Trump ha avuto l’effetto di un segnale: la Turchia torna ad avere il placet di Washington.
Nei Balcani, dove Ankara è ormai radicata attraverso investimenti, borse di studio, restauri e canali diplomatici, il gesto è stato interpretato come la conferma di un nuovo equilibrio. La “sedia avvicinata” nello Studio Ovale non è semplice cortesia: è geometria del potere. Indica che la Turchia rientra nel raggio d’ascolto americano. Significa che Washington riconosce a Erdoğan un ruolo di interlocutore necessario, soprattutto nei momenti di crisi tra Serbia e Kosovo o nelle tensioni bosniache. L’Unione Europea osserva con attenzione. L’allineamento turco-americano rischia di spostare gli equilibri nel Mediterraneo orientale, dove Bruxelles fatica a tenere insieme Grecia, Cipro e interessi energetici condivisi.
Una Turchia riabilitata a Washington aumenta la propria capacità di pressione sull’Europa, già dipendente da Ankara nella gestione dei flussi migratori e nella sicurezza energetica. Per Roma, Parigi e Atene, il nuovo corso rappresenta al tempo stesso un rischio e un’opportunità: se ben gestito, può favorire una maggiore integrazione economica e infrastrutturale nel Mediterraneo; se lasciato alle dinamiche bilaterali di Trump ed Erdoğan, potrebbe invece marginalizzare l’Unione in un’area che resta vitale per la sicurezza europea.
Il vertice del 25 settembre non pone fine alle controversie esistenti, ma le rilancia su una nuova prospettiva. Trump dovrà affrontare la resistenza del Congresso, dove le lobby greche, armene ed ebraiche restano ostili a ogni concessione verso Ankara. Erdoğan, dal canto suo, dovrà tradurre i gesti simbolici in risultati tangibili: accesso ai programmi militari, rimozione delle sanzioni, accordi industriali. Resta il dubbio se il dialogo tra i due leader produrrà una vera convergenza o se si limiterà a una forma di diplomazia spettacolare, utile a entrambi per rafforzarsi sul piano interno. Ma nella logica del potere, anche un gesto può bastare. Forse, tra qualche anno, quel dettaglio – una sedia avvicinata nello Studio Ovale – sarà ricordato come il primo segno di una nuova fase: quella in cui la Turchia, non più periferia della NATO ma perno tra Europa e Asia, torna al centro della geometria del potere mondiale.