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La parata militare di Pechino e il messaggio geopolitico della Cina

Mentre Xi Jinping mostra una Cina tecnologica e assertiva, emergono le contraddizioni tra ambizioni globali e fragilità interne. Il punto di Emanuele Rossi

Il 3 settembre 2025, a Pechino, Xi Jinping ha presieduto una parata militare imponente per commemorare l’80° anniversario della fine della Seconda Guerra mondiale. L’evento, celebrato nel cuore della capitale, ha rappresentato uno dei più significativi momenti di proiezione della potenza cinese negli ultimi anni. Non solo per la quantità e varietà di armamenti esibiti, ma anche per la cornice politica e simbolica in cui si è svolto e per il contesto internazionale in cui si inserisce – tra, i primi effetti del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, l’ascesa delle istanze anti‑occidentali, i Brics e la Shanghai Cooperation Organization, che attirano attenzione da parte di quello che l’Occidente definisce “Global South”.

La rassegna militare cinese ha presentato al pubblico e alla comunità internazionale l’intera “triade” nucleare di cui dispone il Partito/Stato – missili lanciabili da terra, mare e aria – accanto a una serie di nuove piattaforme: l’intercontinentale DF-61, il rinnovato DF-5C con gittata di 20.000 km, sistemi ipersonici anti-nave come gli Yingji-17, 19 e 20, droni subacquei e aerei senza pilota, laser difensivi e perfino un UAV montato su veicolo da combattimento di fanteria. Non sono mancati un nuovo carro armato di punta (Type-100), unità di supporto per operazioni nello spazio e nel cyberspazio e volpi robot – forse dal valore più dimostrativo che operativo, ma tutti integrati con sistemi AI.

Il messaggio che il leader — vestito con il classico Zhōngshān zhuāng, l’abito di Mao usato sempre nelle occasioni di più alto profilo, del Partito o delle Forze armate — è chiaro: la Cina ha raggiunto una capacità deterrente multilivello, in grado non solo di sfidare gli Stati Uniti e i loro alleati, ma anche di condizionare i calcoli strategici di vicini regionali, come l’India, e di attirare l’attenzione di potenziali acquirenti di tecnologie – commesse attraverso cui creare influenza per non dire dipendenza. Tuttavia, il dato che emerge non riguarda solo l’hardware. Le parate, per definizione, non misurano l’efficacia bellica: quella si valuta sul campo, nelle esercitazioni come Joint Swords o Strait Thunder intorno a Taiwan. Dunque, il vero significato della parata sta nella combinazione di deterrenza esterna e legittimazione interna, ossia nella proiezione di politica internazionale che il leader Xi Jinping intende dare al Paese.

Il discorso di Xi: tra universalismo e contraddizione

Se i nuovi sistemi hanno monopolizzato l’attenzione dei media, il discorso di Xi rappresenta la chiave politica dell’evento. Rispetto alla parata del 2015, quando il leader cinese aveva usato toni duramente nazionalistici contro il Giappone e aveva insistito sulla “difesa dei cinquemila anni di civiltà cinese”, quest’anno la retorica è apparsa più universalista. Xi ha parlato di “umanità di fronte alla scelta tra pace o guerra, dialogo o confronto, win-win o somma zero”, presentando la Cina come “forza positiva, dalla parte giusta della storia e del progresso della civiltà umana”.

Si tratta di una narrativa mirata, rivolta soprattutto al Sud globale, che cerca di dipingere la Cina non più come potenza in ascesa e risentita, ma come attore già consolidato, capace di offrire un’alternativa all’ordine liberale. Tuttavia, questa proiezione internazionalista è incrinata dal contesto. Il discorso sulla cooperazione globale è arrivato mentre sfilavano missili a testata multipla e sistemi ipersonici, e soprattutto con Xi affiancato da Vladimir Putin e Kim Jong Un, con quest’ultimo impegnato direttamente a sostenere la guerra di aggressione russa in Ucraina. Un messaggio che, agli occhi dell’Occidente e di gran parte dell’opinione pubblica internazionale, ha reso evidente la contraddizione tra l’immagine di promotore della pace e quella di partner di regimi impegnati in guerre di aggressione o nella proliferazione militare. Resta da chiedersi se questo messaggio non sia stato colto anche da altri attori internazionali, meno inclini a contestare il ricorso della forza come strumento di politica estera.

Il contesto interno: purghe e fragilità

L’ambiguità da osservare sta anche nel collocare l’evento in un momento delicato per l’apparato militare cinese. Due settimane prima della parata, l’ex capo della Marina, Li Hanjun, è stato privato dello status di delegato al National People’s Congress (NPC). Si tratta di un episodio che rientra nella più vasta epurazione condotta da Xi negli anni: la più ampia campagna di purghe ai vertici militari dai tempi di Mao, al tempo stesso strumento di fedeltà personale al leader e di repressione della corruzione. Dinamica che però solleva un interrogativo cruciale: si tratta di un segnale di forza, con Xi capace di imporre disciplina assoluta, o di debolezza, in quanto costretto a rimuovere figure apicali per timore di infedeltà?

La parata, dunque, serve anche a riaffermare la lealtà delle forze armate al Partito comunista e al suo leader. In questo senso, il messaggio interno e quello esterno si intrecciano: mostrare compattezza e potenza all’estero significa consolidare autorità e legittimità in patria.

La dimensione tecnologica

Oltre alla narrativa politica, l’evento ha voluto comunicare soprattutto il salto tecnologico dell’apparato militare cinese. Questo è parte cruciale della narrazione strategica, con cui la Cina cerca di dipingersi all’avanguardia del presente e proiettata nel futuro — raccontando anche come la tecnologia sia stato il fattore con cui la Cina ha chiuso col passato del “Secolo dell’Umiliazione”. La combinazione di droni navali e missili ipersonici potrebbe creare aree di negazione d’accesso difficili da penetrare per flotte esterne, complicando la pianificazione statunitense in caso di conflitto su Taiwan – messaggio nel messaggio, visto il peso politico e simbolico che l’unificazione della Repubblica di Cina ha per il Partito Comunista di Pechino. Allo stesso tempo, le nuove unità dedicate a spazio, cyberspazio e guerra elettronica mostrano la volontà di competere nei domini avanzati.

Tuttavia, restano dubbi sulla piena operatività dei sistemi presentati. Molti di essi potrebbero in effetti trovarsi ancora in fase di sperimentazione o dispiegamento limitato, e non essere pronti a un impiego su larga scala. La rapidità con cui la Cina mostra i nuovi prototipi solleva in effetti il sospetto di un intento di marketing, volto a rafforzare il prestigio internazionale e a incentivare esportazioni verso Paesi interessati.

Dal vertice SCO alla postura globale

Lo show non va isolato dal contesto diplomatico. Solo pochi giorni prima, a Tianjin, la Cina aveva ospitato il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, con la presenza di una ventina di leader stranieri. Pur attraversata da contraddizioni interne (la coesistenza di Cina e India ne è la prova più evidente), la SCO resta lo strumento privilegiato con cui Pechino promuove un’architettura parallela all’Occidente. Non è un caso che Xi abbia cercato di presentare la Cina come garante di stabilità e di “sviluppo pacifico”, mentre allo stesso tempo rafforzava la cooperazione militare con Mosca, comprese le pattuglie subacquee e i voli strategici congiunti in aree sensibili come il Pacifico e il Mar del Giappone.

Sotto questo punto di vista, nonostante le strette di mano durante il summit, è da evidenziare l’assenza di Narendra Modi alla parata pechinese. Il primo ministro indiano, che ha usato l’evento dell’organizzazione per inviare il proprio messaggio internazionale (in un momento di difficoltà nelle relazioni con gli Stati Uniti) non ha partecipato alla parata per evitare di mostrarsi al fianco di Xi, mentre il leader mandava al mondo un messaggio di forza di una Cina che è sempre più espressione delle visioni del leader: sempre più autocrazia.

Tra immagine e realtà

La parata del 3 settembre è stata quindi molto più di una celebrazione storica. È stata una dichiarazione strategica di Xi Jinping, destinata a più platee: agli Stati Uniti e ai loro alleati, che devono confrontarsi con un arsenale in espansione; ai vicini regionali, chiamati a decidere se resistere o adattarsi; al Sud globale, a cui la Cina si propone come forza positiva e garante della stabilità.

Ma al tempo stesso, il messaggio resta segnato da profonde ambiguità. La retorica della cooperazione universale si accompagna a un’ostentazione militare senza precedenti – e alla sua messa in pratica dalle acque del Mar Cinese alle alture dell’Himalaya – e all’abbraccio con regimi isolati come quello russo e nordcoreano. Le purghe interne, infine, segnalano che la costruzione di questa immagine di potenza compatta poggia su fondamenta meno solide di quanto la coreografia di piazza Tiananmen – già teatro delle incoerenze e delle contraddizioni del potere del Partito Comunista Cinese – lasci intendere: un potere che costruisce scenografie di forza ma fatica a tradurle in capacità operative.

La Cina di Xi si presenta come una potenza già “ascesa”, mostrandosi alla guida di un sentimento che aspira a un nuovo ordine mondiale e che intende piegare la storia a proprio vantaggio: dal racconto di aver sconfitto il nazionalismo nipponico (chiaramente senza citare la pagina, anche triste, dell’azione americana), al tentativo di stravolgere le carte dell’Onu su Taiwan. Resta aperta la domanda se questa immagine possa tradursi in realtà operativa e se le contraddizioni interne ed esterne non finiranno per limitarne l’efficacia strategica.

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