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La politica mediorientale di Washington nel secondo mandato di Trump

Se per risolvere la situazione palestinese potrebbe prevalere la leva economica, differentemente con l’Iran si prevede un inasprimento dell’approccio usato finora. Il punto di Daniele Ruvinetti

Con la vittoria di Donald Trump alle elezioni USA2024, si prospetta una continuità nelle politiche mediorientali già sperimentate durante il suo primo mandato, e in larga parte mantenute dall’amministrazione Biden. I principali assi d’intervento si basano sul rafforzamento dell’alleanza con Israele, l’integrazione economica e politica dello stato ebraico con i Paesi arabi del Golfo, il contenimento dell’influenza iraniana e un approccio pragmatico alle questioni palestinesi.

La politica mediorientale di Trump sarà, infatti, fortemente improntata sul supporto strategico a Israele, partner essenziale per gli Stati Uniti nella regione. Gli Accordi di Abramo, che hanno portato alla normalizzazione delle relazioni tra Israele e diversi paesi arabi – tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco – potrebbero ulteriormente espandersi, con un focus sull’inclusione dell’Arabia Saudita, vista come il “premio finale” in questo percorso di integrazione. Sebbene Jared Kushner, il genero di Trump che in precedenza ha giocato un ruolo centrale nella negoziazione degli Accordi di Abramo, probabilmente non assumerà ruoli ufficiali, è possibile che la sua influenza indiretta e i suoi rapporti con leader chiave del Golfo (come quelli di Arabia Saudita ed Emirati Arabi) possano continuare a orientare parte delle dinamiche regionali, anche in tal senso.

L’estensione di certi accordi rappresenta una continuità rispetto al mandato precedente e mira a stabilire Israele come perno di un’alleanza regionale che, oltre a facilitare i rapporti economici, offrirebbe maggiore stabilità e un fronte comune contro l’influenza dell’Iran. In questa prospettiva, la seconda amministrazione Trump potrebbe lavorare attivamente per consolidare un’area di cooperazione strategica con Tel Aviv, puntando a un’integrazione non solo diplomatica ma anche economico-securitaria, che attragga investimenti e solidifichi le relazioni economiche cruciali.

Certo non manca un’articolata complicazione del disposto creato dalla guerra contro Hamas, dalla crisi umanitaria a Gaza, dalla destabilizzazione regionale collegata e da alcune visioni interne all’esecutivo israeliano. Per tale ragione, c’è da aspettarsi che il dossier palestinese probabilmente continuerà a essere gestito attraverso una logica di “peace through prosperity,” attraverso la quale gli incentivi economici vengono offerti in cambio di concessioni politiche. La visione di Trump per una “entità palestinese”, presentata durante il primo mandato, potrebbe trovare ulteriore sviluppo, consolidando una linea che mira a promuovere una sorta di autonomia amministrativa palestinese, senza però avanzare verso un pieno riconoscimento della sovranità. C’è già stato un contatto del presidente eletto con Abu Mazen a testimoniare una forma di impegno in questo senso. Dopotutto, anche la presidenza Biden ha evitato di riaprire la discussione su una “soluzione a due stati” effettiva, mantenendo il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme (scelta trumpiana di chiaro indirizzo politico) e non intervenendo in modo significativo sulla questione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Nel caso della seconda amministrazione Trump, si potrebbe prevedere un proseguimento di questa linea, concentrandosi su incentivi per l’economia e spinte sullo sviluppo delle infrastrutture, piuttosto che su concessioni politiche. Sebbene dunque sia improbabile un ritorno a negoziati diretti sulla sovranità, non è comunque esclusa l’esplorazione di forme di cooperazione con soggetti locali palestinesi, per stabilizzare l’area e minimizzare le potenziali tensioni con le popolazioni locali.

Se nel caso della questione palestinese sarà l’ottica transazionale a guidare le scelte, differentemente con l’Iran resterà l’antagonismo strategico — a maggior ragione se si continua a rafforzare la linea operativa antioccidentale con la Russia. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca lascia prevedere una ripresa della politica di “massima pressione” già adottata in precedenza, in cui le sanzioni e l’isolamento economico hanno rappresentato gli strumenti centrali. La precedente uscita degli Stati Uniti dal JCPOA, il trattato che limitava il programma nucleare iraniano in cambio di alleggerimenti sanzionatori, potrebbe essere ulteriormente rafforzata con nuovi pacchetti di sanzioni e, potenzialmente, con azioni coordinate con partner regionali come Israele e gli stati del Golfo. In questo caso, ci sarà anche particolare attenzione al contenimento (anche in forma armata) delle milizie regionali che compongono l’Asse della Resistenza connesso all’IRGC.

La seconda amministrazione Trump potrebbe, dunque, puntare alla creazione di un’alleanza economico-securitaria regionale con Israele e le monarchie del Golfo, mirata a contenere le ambizioni di Teheran e a rafforzare la proiezione di potenza degli Stati Uniti su rotte energetiche e commerciali chiave, dal Mar Rosso alla ventura IMEC. Tale allineamento non solo conterrebbe Teheran, ma potrebbe anche fungere da argine all’influenza di altri attori globali, in particolare la Cina e la Russia. In questo senso, la politica di Trump si configura come un tentativo di preservare l’egemonia americana nella regione, seppure da remoto e a controllo meno diretto, creando un blocco anti-iraniano saldo e allineato con le principali priorità statunitensi.

Rimane incerto come questa strategia verrà recepita a livello locale e quali saranno le reazioni della popolazione nei territori palestinesi e in altri paesi arabi, anche considerando la compattazione delle collettività arabo-islamiche dopo l’inizio della guerra a Gaza e nel sud del Libano, nonché dopo il tentativo di normalizzazione con l’Iran avviato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. L’eventuale annessione di porzioni di Cisgiordania o un ampliamento delle politiche di insediamento israeliano potrebbero, inoltre, accrescere le tensioni con le comunità locali, provocando una risposta da parte delle forze politiche palestinesi o suscitando disaccordo in seno agli stessi paesi arabi. Allo stesso modo, un ulteriore inasprimento delle sanzioni contro l’Iran potrebbe spingere Teheran a intensificare la propria presenza in Medio Oriente e a stringere l’allineamento con Russia e Cina, creando tensioni anche con i partner regionali di Washington.

In questo contesto, il ritorno di Trump potrebbe significare una stabilizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e alleati storici del Golfo e Israele a livello di leadership, ma lascia aperta la questione della reazione di attori locali e collettività regionali. La posizione condizionale della politica americana potrebbe quindi essere interpretata come un’opportunità per alcuni e un punto di frizione per altri, con un potenziale di instabilità che, sebbene monitorabile, non può essere escluso. Almeno nel breve termine, ossia quello in cui peseranno le dinamiche attualmente in corso.

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