Dazi e mercati. Le scelte di Trump
La svolta dei dazi e le reazioni dei mercati e della politica americana. Il punto di vista di Stefano Marroni

Ha provato a lungo a tener duro. Facendo la voce grossa con i parlamentari del Gop preoccupati della reazione dei propri elettori. Ironizzando sui paesi che cercavano un contatto con la Casa Bianca spiegando che facevano la fila “per baciarmi il c..o”. Assicurando che “andrà tutto bene”, chiedendo agli americani di “stare calmi”, di aver fiducia in lui e nella sua strategia per “fare di nuovo l’America il paese ricco che era”. Ma nel pomeriggio di mercoledì, a poche ore dalla chiusura di Wall Street, di fronte all’evidenza che stava venendo giù tutto a cominciare dai bond americani, Donald Trump ha reagito alla sua maniera, prendendo atto che la gente stesse “un po' esagerando. Stavano diventando un po' nervosi, sapete? Stavano diventando un po' nervosi, un po' spaventati." E messi da parte in un lampo i proclami bellicosi di poche prima, mettendo in serio imbarazzo i fedelissimi che in qualche caso hanno saputo della svolta dalle agenzie, ha annunciato a sorpresa una pausa di novanta giorni nell’entrata in vigore dei dazi “reciproci” appena scattati: aprendo a trattative nei confronti di tutti i paesi meno che della Cina, ma con l’Europa e il Canada ancora alle prese con il 25 per cento di prelievo sull’importazione di acciaio e alluminio negli Stati Uniti. Un colpo di scena che ha cambiato tutto lo scenario, facendo da un momento all’altro schizzare alle stelle tutti i listini americani. E consentendo a politici, uomini d’affari e semplici pensionati di tirare un sospiro di sollievo, dopo una settimana da incubo per la economia mondiale.
C’è tutto Trump, in quel che ha scatenato la sua frenesia tariffaria contro il mondo prodotto dalla globalizzazione, e nel modo disinvolto in cui l’ha messa tra parentesi. Tra parentesi e non del tutto in cantina perché - nell’innescare la tempesta perfetta che ha terremotato gli Usa e stretto i loro alleati in una situazione insostenibile - il quarantasettesimo presidente ha pescato in un repertorio di idee che si porta dietro da decenni. E con un ispiratore anni ’80, un capo d’azienda che proprio come lui chiamava gli americani a reagire alle insidie del libero scambio: una trappola – scriveva l’allora Ceo di Chrysler, l’italoamericano Lee Iacocca – che apriva la strada al rischio di ridurre in un decennio l’economia americana “a poco più che una serie di banche drive-in, hamburgherie e sale giochi”.
Le cose non andarono poi esattamente così, e negli anni ’90 fu invece proprio la globalizzazione a spingere gli Usa sulla strada di una crescita senza precedenti. Ma l’ammirazione di Trump per le idee del celeberrimo erede di una coppia di ristoratori arrivati in America da San Marco dei Cavoti, provincia di Benevento, non è mai diminuita. Come suggerisce forse anche quel “MAKE AMERICA GREAT AGAIN” che a occhio sembra preso pari pari dal titolo del capitolo 28 dell’autobiografia di Iacocca, in assoluto uno dei più clamorosi successi editoriali negli Usa della metà degli anni ‘80. All’epoca, l’ossessione Usa per il pericolo giallo aveva come bersaglio non la Cina ancora stordita dal decennio della Rivoluzione Culturale ma il Giappone, che riempiva con le sue auto poco costose e dai bassi consumi le strade d’America. Di quell’ossessione Michael Crichton fece il cuore di un romanzo riuscitissimo, “Sol Levante”. Una minaccia che come il Trump di oggi - alle prese con la Cina di Xi e con l’Unione Europea che “è nata per fotterci” - Iacocca voleva combattere con quella che considerava la migliore delle armi: i dazi.
In questo senso, non c’è ragione di cercare suggeritori occulti dietro le scelte fatte dal presidente in queste settimane: è tutta farina del suo sacco. “La gente è stanca di vedere gli altri paesi fare a pezzi gli Stati Uniti e ridere di noi, ridere dietro le nostre spalle della nostra stupidità”, spiegava Trump a Larry King nel 1987, dagli schermi della Cnn. “Per decenni il Giappone e altri paesi si sono approfittati degli Usa senza mai rimborsare quel che spendiamo per la loro difesa”, fece scrivere negli stessi mesi in una pagina a pagamento pubblicata sui maggiori quotidiani americani, che gli costò oltre centomila dollari. Convinzioni radicate, insomma, che il Trump presidente ha trasformato nel vangelo di una politica commerciale, ma soprattutto di una politica estera aggressiva. Pezzi di un repertorio collaudato dal tycoon, che ad amici ed avversari riserva una tattica di negoziazione fondata sulla minaccia, sulla richiesta di accettare poco e offrire molto per non correre il rischio di non avere niente.
Rispetto anzi ai suoi primi quattro anni alla Casa Bianca – ha detto l’economista Paul Krugman in una conversazione con Ezra Klein pubblicata dal New York Times – il presidente si è ancora più calato “nella rozza convinzione che chiunque ci venda più di quanto noi vendiamo a lui ci sta derubando, e con questo lui vuole farla finita. Ora, io sono certo che gente come Scott Bessent vede benissimo che tutti i segnali di pericolo lampeggiano furiosamente. Ma Trump lo capisce? E c’è qualcuno intorno a lui abbastanza coraggioso da dirgli ‘Presidente, così non va’? Non mi pare. E se c’è, credo che lui sia convinto che semplicemente non capiscano quanto è brillante la sua politica, e che la gente vedrà che è lui il più furbo di tutti”.
A lungo, dopo la vittoria del 5 di novembre, l’attenzione dei paesi Nato e degli amici dell’America nell’Indopacifico – dalla Corea al Giappone all’Australia - è rimasta concentrata soprattutto sugli effetti del ventilato disimpegno americano dalle politiche di difesa comune, e sui modi dell’iniziativa di Trump per arrivare alla pace in Ucraina passando sulla testa degli alleati e strizzando l’occhio al Cremlino. Ma a ben vedere una parte del suo gioco il presidente l’aveva scoperta almeno da dicembre, avvertendo l’Europa che “o comprano molto più del nostro gas e del nostro petrolio o andremo giù di DAZI, DAZI, DAZI”, come aveva scritto su Truth. Lo sviluppo dell’offensiva ha però colto tutti di sorpresa, un po’ per le sue dimensioni e il tono da prendere o lasciare, un po’ per l’evidente approssimazione di misure calcolate a spanne, con formule che ai giornali americani sono sembrate prese addirittura interrogando i chatbot di intelligenza artificiale, o prendendo di mira paesi minuscoli e poverissimi come il Lesotho, per non dire isole – diventate “meme” popolarissimi sui social – perse in mezzo agli oceani e popolate pressoché solo di pinguini.
Sui giornali americani, i retroscenisti hanno ricostruito le convulse ore che hanno preceduto la svolta, dando voce per la verità anche ai sospetti di una parte del mondo politico e finanziario su un possibile, gigantesco insider trading giocato dal presidente, che a cinque ore dal colpo di scena, mente veniva giù tutto, aveva scritto su Truth “ora è un gran momento per COMPRARE!”. Ma l’attenzione si è concentrata soprattutto sul lavoro di quanti- tra i consiglieri di Trump – hanno tentato di dissuaderlo dall’andare fino in fondo.
È un tema, quello della composizione della squadra di governo in questo secondo mandato del tycoon, che da mesi in America è al centro delle newsanalysis. Fin da novembre il presidente ha subito messo in chiaro con I suoi consiglieri che stavolta – e in tutti gli ambiti - avrebbe fatto le cose a modo suo, circondandosi di persone che si fidano ciecamente dei suoi istinti: dando ad esempio un segnale chiaro – nel ripetere che nella sua visione i dazi sono lo strumento per salvare l’economia americana – con il lasciare senza incarichi un personaggio del peso di Robert Lighthizer, che era stato al suo fianco nelle trattative sui dazi con la Cina e la rinegoziazione del Nafta con Canada e Messico.
Sui giornali e a Capitol Hill si sprecano le ironie sul ruolo del suo special adviser per il Commercio, Peter Navarro, che in più occasioni ha detto di aver sviluppato le sue teorie grazie ”al lavoro dell’economista Ron Vara”, che però non esiste e altro non è – si è scoperto - che l’anagramma del suo cognome. Ma è lui – protagonista di un sanguinoso botta e risposta con Elon Musk - ad aver ispirato gran parte dell’elenco con cui Trump ha lanciato l’offensiva, e respinto al mittente l’offerta Ue di azzerare reciprocamente i dazi, perché – ha spiegato – gli Usa devono rifarsi dell’Iva e non possono accettare il blocco dell’importazione di carni bovine nutrite con prodotti vietati in Europa. Mercoledì mattina, però - mentre l’ultratrumpiano New York Post pubblicava un sondaggio shock con il 72 degli americani convinti che Trump stesse facendo male all’economia americana - Navarro non faceva parte del gruppetto che si è chiuso nello studio Ovale con il presidente: il segretario al Commercio Howard Lutmick, il direttore del National Economic Council Kevin Hasset e soprattutto il segretario al Tesoro Bessent, che si era già confrontato domenica faccia a faccia con Trump a bordo dell’Air Force One. Alle fine, sono stati i dati sull’andamento dei tassi sui buoni del Tesoro americano a dieci anni a convincere Trump che il banco rischiava di saltare. E a fargli annunciare una svolta che ora riapre i giochi almeno per i prossimi tre mesi, nonostante le incertezze legate allo scontro frontale con la Cina. Poi, si vedrà, ha anticipato il presidente ai suoi: “Deciderò quel che mi detta l’istinto. Voglio dire, su una cosa così, non riesci quasi a mettere la matita sulla carta. Credo sia più una faccenda di istinto che altro…”.