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La Tunisia all’indomani del Referendum

Cosa emerge dal risultato della consultazione referendaria in Tunisia sulla nuova Costituzione? Il punto di vista di Alessandro Giuli

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L’esito del referendum tunisino ci restituisce l’istantanea di una nazione che nella persona del presidente Kaïs Saïed sembra ritenere di aver costituzionalizzato lo stato d’eccezione. Il che, malgrado la scarsa affluenza alle urne e una trasversale ma disorganica fronda delle opposizioni, avviene al cospetto d’una crisi di sistema aggravata da uno choc economico-finanziario destinato ad acuirsi da qui all’autunno prossimo. La legittimazione del voto (94,6 per il sì alla nuova Carta voluta da Saïed) si basa sulla partecipazione di 2,6 milioni di cittadini sui 9,3 aventi diritto (30,5 per cento) e pone evidentemente questioni anche formali oltreché di sostanza. A nulla valgono tuttavia le diffuse accuse di “frode”: il capo della commissione elettorale, Farouk Bouasker, ha annunciato che “l’Alta Autorità indipendente per le elezioni dichiara di accettare il testo della nuova bozza di costituzione della Repubblica tunisina, sottoposta a referendum ai sensi dell'articolo 117 della legge fondamentale”. In attesa di dati scorporati per aree geografiche e fasce d’età, si può rilevare l’incidenza delle zone rurali e periferiche interessate alla rimodulazione regionalistica del perimetro parlamentare. Nella campagna pro Saïed, oltre alla Gioventù patriottica e al movimento “25 luglio” (ispirato alla data del referendum caduta in coincidenza con la sospensione del potere legislativo imposta un anno prima) si sono distinti i blocchi governativi come quello delle “donne rurali” del governatorato meridionale di Tataouine o l’Associazione generale per lo sviluppo e gli affari sociali di Monastir (estremità del golfo di Hammamet). All’opposto, l’Associazione dei magistrati tunisini ha sin dapprincipio contrastato la riforma lamentando l’esproprio delle sue prerogative: “Il Consiglio superiore della magistratura è ora accantonato, per consentire all’esecutivo presidenziale di mettere le mani su nomine, trasferimenti e licenziamenti”.

A nulla sono valsi finora gli appelli della società civile metropolitana e degli osservatori competenti preoccupati di una torsione autoritaria che insidia la già precaria stabilità del quadrante maghrebino. Come ha ricordato sul Figaro alla vigilia della consultazione Skander Ounaies, docente di Economia all’Università di Cartagine, la comunità internazionale non si è abbastanza preoccupata di monitorare le possibili conseguenze di un evento politico così imponente. La Tunisia – giova ricordarlo – sconta un declassamento a CCC con prospettive negative nel rating del proprio debito sovrano che rappresenta l’87% del PIL (“insostenibile”, secondo il Fondo monetario internazionale impegnato in una trattativa per un prestito miliardario ancora non perfezionato), un deficit del 10% nel 2022, disoccupazione al 16% e un’inflazione reale che viaggia verso la doppia cifra (8% quella ufficiale). In breve, si sta parlando di un Paese tecnicamente a rischio default che consegna la sua imperfetta democrazia parlamentare nelle mani di un’autorità priva di contropoteri effettivi. Il patto fondamentale della Tunisia uscita dalla deriva salafita e a forte tasso di corruzione rappresentata dal trascorso monopolio di Ennahda non ne rimette in questione l’identità islamica, naturalmente, piuttosto la costringe in una gabbia generica (la Umma) e rigorista che non libera le energie dinamiche del mondo laico e di quello sufi presente sin dall’XI secolo nell’areale punico romanizzato.

Rischia di risentirne gravemente quel fragile nucleo di borghesia che dinamizza, soprattutto grazie al turismo, un’economia percorsa dal drammatico innalzamento dei prezzi sui generi di prima necessità aggravato dalla guerra russo-ucraina e dal recente rafforzamento del dollaro che pesa sul mercato delle importazioni. Alla catena del valore sociale e culturale, caratteristica di una nazione antica che si affaccia sul Mediterraneo, potrebbe rischiare di sostituirsi la sclerosi di un gruppo di giuristi inesperti di economia intenzionati a erodere l’indipendenza del potere legislativo e di quello giudiziario al punto da rendere inappellabile ricorso allo stato d’emergenza da parte del presidente, dotando quest’ultimo di un’immunità personale vitalizia indipendente dalla durata della carica. Sembrano, questi, i prodromi di una prossima “chiamata alle armi” che potrebbe passare per la compilazione di una nuova legge elettorale su misura e una successiva convocazione dei comizi.

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