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L’accordo di tregua a Gaza: le dinamiche diplomatiche, geopolitiche e i punti di incertezza futura

L’accordo storico di pace a Gaza: il ruolo di Trump, il vertice in Egitto e le prospettive per la regione. L’analisi di Giorgio Cella

Trascendendo le cronache e la pletora di notizie e relativi dettagli dell’ultim’ora che si moltiplicano a dismisura in momenti di grande concitazione come questo, vedremo in questa analisi di cogliere alcuni punti di fondo di grande rilievo per la comprensione, sia sul piano macro che su quello regionale, del dirimente cessate il fuoco a Gaza. In primo luogo, è possibile affermare che non appare un’esagerazione definire storico l’accordo di tregua raggiunto tra Israele e Hamas sotto l’egida e la volontà (personale e politica) del presidente statunitense Trump e del suo team diplomatico. Un cambio di paradigma che, indipendentemente dalle molte incognite e ostacoli che potrebbero emergere nel futuro prossimo (che vedremo nelle conclusioni), configura una nuova realtà sul campo e crea l’aurora di una nuova potenziale architettura di sicurezza per il Medioriente. In secondo luogo, e prima di procedere alle analisi tecniche circa le dinamiche diplomatiche e geopolitiche in moto, si impone una riflessione di carattere umanitario che non può che allietare tutte le opinioni pubbliche: l’accordo porta finalmente a una interruzione del dramma umanitario iniziato con gli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023 e poi seguiti da oltre 738 giorni di tragica violenza bellica nella Striscia di Gaza. Al cessate il fuoco è seguita altresì la liberazione dei venti ostaggi in vita israeliani ancora in mano alle milizie di Hamas: dei 28 ostaggi ormai cadaveri invece, solo 4 sono stati sinora rilasciati alle autorità israeliane, creando una prima frizione tra le parti. Alla liberazione degli ostaggi israeliani è seguito il rilascio di 1968 prigionieri palestinesi; esclusa (per ora) nello scambio la celebre figura politica palestinese Marwan Barghouti.

Rubio, Witkoff, Kushner: i protagonisti diplomatici della tregua

Alto impatto simbolico hanno avuto le immagini provenienti da Gerusalemme ritraenti due tra i massimi architetti della tregua, Jared Kushner e Steve Witkoff, entrambi di fede ebraica, mentre pregano davanti al muro occidentale (HaKotel HaMa'aravi in ebraico, interno all’Haram al-Sharif in arabo, il Nobile Santuario, noto al volgo come spianata delle moschee) e mentre parlano dalla Piazza degli Ostaggi di Tel Aviv in fronte a centinaia di migliaia di israeliani lì radunati in attesa del rilascio degli ostaggi. Presente invece al discorso di Trump alla Knesset l’altro grande regista della tregua, il Segretario di Stato Marco Rubio, definito dal presidente statunitense come il più grande Segretario di Stato della storia degli Stati Uniti. Se come accennato le incognite all’orizzonte sono innumerevoli e il quadro politico nel quale i negoziatori si sono mossi e si dovranno muovere rimane frangibile e di altissima complessità, una analisi della situazione esige di concentrarsi per lo più sul presente e su quanto occorso in questi fatidici giorni, data la storicità e il momentum prodotto da tale accordo di tregua architettato da Donald Trump, il quale lo ha egli stesso definito “una nuova alba per il Medio Oriente” nel discorso alla Knesset.

I meccanismi geopolitici di Washington dietro l’accordo di tregua: il ruolo di Turchia e Qatar e l’architettura di sicurezza in Medioriente

Brilla, per forza di cose, nel framework negoziale in corso, in primis il padrone di casa, l’Egitto del Generale Al Sisi, che si è intestato un evento diplomatico di estrema importanza, riconfermando la antica e nobile terra dei Faraoni come un attore di rilievo nelle dinamiche mediorientali, mostrando allo stesso tempo grande e continua attenzione per la questione palestinese, molto sentita nell’opinione pubblica egiziana. Per quanto concerne il Qatar e la Turchia invece, una impostazione politica similare da parte di Washington (rassicurare i due alleati e mantenerli nell’orbita d’influenza statunitense in Medioriente) ma con cause distinte, che vediamo di seguito:

  • Il Qatar è stato oggetto di quel controverso raid missilistico da parte israeliana lo scorso settembre che, in una palese violazione della sovranità del Paese del Golfo, aveva come scopo (fallito) quelli di eliminare dirigenti di Hamas lì radunati per negoziazioni nella capitale qatariota. Trump, data la tradizionale vicinanza tra Stati Uniti e Qatar in termini di allineamenti politici e di cooperazione strategica (si veda ad esempio la base su suolo qatariota di Al Udeida, sede dello US Central Command, e la notizia recente di una base per l’aviazione del Qatar negli Stati Uniti, in Idaho), vuole dunque rassicurare ed evitare qualsivoglia allontanamento di Doha dall’orbita di influenza statunitense, e la prosecuzione degli eccellenti rapporti bilaterali. L’immagine molto significativa di Trump che regge il telefono con cui il premier israeliano Netanyahu - sotto la pressione dello stesso presidente statunitense porge le sue scuse all’emiro Al Thani affermando che non si ripeteranno più violazioni della sovranità del regno - parla più di mille parole
  • Per quanto concerne la Turchia invece, come accennato, la volontà politica di Washington è quella di riaffermare e mantenere la sua storica influenza e i rapporti ottimali bilaterali con Ankara, ma la causa è diversa, e la si trova nei sempre più deteriorati rapporti tra Israele e Turchia. Negli ultimi anni infatti, con una accelerazione negli ultimi mesi, è emersa sempre più visibilmente una crescente, strisciante, rischiosa ostilità tra Tel Aviv e Ankara - si veda in primis la situazione di tensione politico-militare in Siria e le nuove tensioni a Cipro[1]. Washington vuole quindi confermare e rafforzare i rapporti con lo storico alleato NATO, e frenare sul nascere qualsiasi accelerazione delle tensioni con Israele. Come noto la potenza turca neo-ottomana di Erdogan ha importanti ambizioni in termini di proiezione di potenza regionale e oltre, vedendosi come l’attore statuale principale nel Medioriente e nel mondo musulmano tout court, oltre che, tramite il drive panturanico, pilastro e riferimento per tutto il mondo turcico. Il veto del presidente turco circa la presenza di Netanyahu al vertice di ieri a Sharm el-Sheik, che ha di fatto impedito al premier israeliano di presenziarvi, spiega bene la situazione di tensione tra le due potenze regionali
  • Evitare il proliferare di patti geopolitici di sicurezza come quello siglato da Arabia Saudita e Pakistan a settembre, firmato sulla scia del controverso raid israeliano a Doha sopracitato, che porterebbe portare a un cambio non desiderato degli equilibri di potenza regionali, a un mutamento ignoto dello status quo, con evidenti potenziali criticità per l’influenza degli Stati Uniti nella regione

Peace through strenght e Prosperity: l’America di Trump si riconferma primaria potenza globale

Con questo importante evento diplomatico per il quadrante mediorientale, si riconferma e solidifica di riflesso la primazia di potenza degli Stati Uniti non solo nella regione ma a livello globale: a dispetto di chi dipingeva in questi ultimi anni l’influenza degli Stati Uniti in forte declino, in stato di rapido deterioramento o addirittura già al tramonto a fronte di nuove potenze emergenti, l’America di Trump conferma la vitalità della sua proiezione globale. L’assertività diplomatica (e di deterrenza militare) tramite il moto trumpiano concettuale e pratico peace through strength applicato ai più diversi scacchieri della geopolitica mondiale, sta evidentemente portando i suoi frutti: al netto di come potrà evolversi la questione, l’impatto trasformativo così rapido causato dall’attivismo politico di Trump in Medioriente conferma l’indiscussa influenza e forza globale di Washington.

Gli elementi di incertezza del piano di tregua per Gaza e per il Medioriente allargato

Se l’euforia è più che giustificata, rimangono, come è ovvio, varie zone d’ombra all’orizzonte di questo nuovo Medioriente. Si rammenti e ribadisca in primo luogo come non si tratti di una pace definitiva, ma di una tregua, cementificata dalla firma di ieri a Sharm el-Sheik dell’accordo per il cessate il fuoco dal titolo Peace 2025, prima fase propedeutica a una futura olistica ricomposizione del conflitto, tramite la auspicata firma di un trattato di pace finale da raggiungere nei prossimi mesi o nel 2026. La seconda fase dovrà risolvere, tramite un complesso lavoro di diplomazia multilaterale e di peace building - nel quale si auspica anche un ruolo attivo dell’Italia, forte della sua tradizione di potenza diplomatica euro-mediterranea e delle sue forze armate rinomate per la loro efficacia ed esperienza negli scenari del dopo guerra – varie dimensioni di incertezza e opacità, tra le quali quelle riportate in sintesi qui di seguito e che analizzeremo nel corso delle prossime settimane:

  • Il ruolo dell’organizzazione terroristica di Hamas (e delle altre milizie armate negli scenari futuri di Gaza); se verrà realmente e definitivamente sciolta o se si avrà qualche riconfigurazione in chiave politica dell’organizzazione, considerando come Hamas sebbene fortemente indebolita da due anni di operazioni militari israeliane, non sia stata completamente sconfitta, né sul piano militare né su quello politico
  • Quali entità e forme di governo, transitorie o meno, statuali o multilaterali, dovranno gestire la critica fase di transizione - sia sul piano amministrativo che securitario - verso una realtà a Gaza (come in Cisgiordania) che porti a compimento l’obbiettivo di uno Stato palestinese riconosciuto sul piano internazionale (eventualità che Netanyahu ha perentoriamente escluso, mentre il presidente egiziano Al Sisi ha parlato apertamente durante il vertice di Sharm el-Sheik della soluzione dei due Stati. Inoltre lo stesso Al Sisi potrebbe divenire, secondo le ultime indiscrezioni, la figura di riferimento per la prossima critica fase di transizione pacifica a Gaza, al posto di Tony Blair
  • Il ruolo e posizionamento delle forze armate israeliane nei pressi della Striscia di Gaza: secondo il piano di tregua elaborato, se la parte palestinese rispetta il cessate il fuoco, le IDF non potranno rientrare nei territori evacuati
  • La ricostruzione di Gaza, analogamente a quanto accadrà in Ucraina, costituirà una partita fondamentale per quanto concerne la stabilità e l’ordine della striscia, il futuro assetto politico-economico dei gazawi e della società palestinese nel suo complesso. Prossima tappa della ricostruzione di Gaza, a riconferma della centralità dell’Egitto come sede diplomatica per le questioni mediorientali, si terrà a novembre al Cairo
  • Da ultimo, rimane sullo sfondo l’eventuale ripresa della grand strategy israelo-americana degli Accordi di Abramo: rispetto a questi ultimi, rimane l’altra incognita sul futuro dell’Iran, ossia se si avrà una seconda fase di ostilità con eventuali tentativi di regime change a Teheran, o se, come caldeggiato da Trump alla Knesset, egli riuscirà a cooptare financo il regime degli Ayatollah in una nuova rivoluzionaria architettura per la regione mediorientale


[1] Reuters, Turkey monitoring reports Cyprus getting Israeli defence system, official says, https://www.reuters.com/busine...

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