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L’Africa dei migranti interni. Un fenomeno multidirezionale

Il punto di vista di Ginevra Leganza su un fenomeno in costante crescita, in particolare nel continente africano

Di qua dal Mediterraneo, lo chiamiamo “migrante”. Nel cuore del continente antico, egli è invece “l’esule in patria”. Perché mai come oggi gli sfollati interni, in Africa, hanno superato i picchi del passato.

Le stime del Global Report on Internal Displacement 2025 dell’Idmc contano 38,8 milioni di uomini donne e bambini in fuga. I quali, tuttavia, non varcano le frontiere. Il numero equivale a quasi la metà degli sfollati mondiali.

Sempre l’Idmc mostra come 23 nazioni africane – incrociando cause relative a conflitti e cataclismi – siano interessate da una cifra di profughi che negli ultimi quindici anni risulta triplicata.

In tale contesto, va da sé, il paese maggiormente interessato – nonché “grande rimosso” dalla nostra stampa (anche per l’impedimento di accesso ai media internazionali entro i confini) – è oggi il Sudan. Paese da due anni teatro di un massacro occulto da ricondurre ai due illegittimi generali: Mohamed Hamdan Dagalo alias “Hemedti” e il nemico (ex socio) generale dell’esercito regolare Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, sotto il cui controllo cadono quattro dei cinque stati del Darfur.

Il fenomeno della migrazione interna è scandito, in Sudan, da un disastro umanitario difficile da mettere a fuoco a meno di non ingrandire la lente sulle storie più piccole e individuali. Il sito francese di “Azione contro la fame” racconta, a tal proposito, la traversata di Nyibol Mathiang Deng, donna incinta di sei mesi abitante nel villaggio di Muglad, nella provincia del Kordofan occidentale. Rimasta nascosta a seguito dell’assalto dei militari di Hemedti – per sfuggire allo stupro etnico volto alla sostituzione dei Masalit con gli arabi – Nyibol Mathiang Deng è partita per un viaggio in auto, moto, e a piedi durato quattro giorni. In direzione del Sudan del Sud. Nell’ottica di quella che è stata definita “porta girevole” dello sfollamento. Giacché il conflitto in Sudan, che si protrae dall’aprile 2023, ha scaturito l’esodo di oltre 821 mila persone verso il Sudan del Sud, dove tuttavia nello stesso anno gli sfollati interni erano già 2 milioni e i profughi rifugiati nei paesi limitrofi – molti erano diretti nella Repubblica Democratica del Congo – altri 2,3.

Inondazioni e carenza di cibo fanno però il paio con uno spostamento, in Sudan del Sud, che riguarda anche il “ritorno” dallo stesso Sudan: da nord verso sud. 640 mila erano infatti i sud-sudanesi rimpatriati tra aprile 2023 e ottobre 2024, incagliati nell’ordito di un movimento multidirezionale. Centripeto e centrifugo. Tragicamente incontrollato. Con flussi non simultanei, ma sovrapposti nel tempo.

Il fenomeno – in apparenza più semplice da focalizzare, se si considera il solo conflitto sudanese – è invero enormemente complesso. Report di countryeconomy.com stimano che in diversi anni, più di 100 mila persone abbiano abbandonato il Ciad per il Sudan, secondo un flusso che si è invertito al punto che il Ciad, oggi, ospita a sua volta circa un milione di profughi sudanesi. Ma il Ciad, di suo, è nondimeno reduce da una delle peggiori inondazioni della storia recente. Una catastrofe che ha visto fuggire, tra agosto e novembre 2024, 1,3 milioni di persone da campi sommersi (1,9 milioni di ettari).

La variabile climatica, tuttavia, non riguarda solo il bacino del lago Ciad. A ovest del continente, le inondazioni del fiume Congo hanno determinato, alla fine del 2024, 6,2 milioni di congolesi sfollati. Per non dire, ancora, del Corno d’Africa dove tra conflitti e cataclismi si registrano quasi 4 milioni di sfollati in Somalia e oltre 3 milioni in Etiopia.

I numeri sono dunque imponenti. E il fenomeno, frutto di cause e concause, si estende con le sue metastasi da est a ovest e viceversa. Sino al cuore dell’Africa occidentale.

Immune, a ovest, non è certo la Nigeria. Il gigante africano del conflitto con Boko Haram (quasi 300 mila sono gli spostamenti nel 2024); la Nigeria del crollo della diga di Alau (per metà sommersa è la città di Maiduguri: 121 mila sfollati); il grande paese delle grandi inondazioni che determinano, in totale, oltre 3 milioni di nigeriani senza dimora. E tuttavia proprio in Nigeria – e forse quasi solo in Nigeria – è messo oggi in campo, nella stessa Maiduguri, il “Borno model”. Ossia il piano che ha interessato i leader dell’Alliance of Sahel Institute for Security Studies (ASISS), riunitisi, lo scorso marzo, con il governatore del Borneo Babagana Zulum.

Che il modello del Borneo possa avere successo, solo il tempo lo dirà. I suoi principi s’incardinano, secondo il governatore, nello sforzo teso a ricostruire la fiducia tra le comunità: nella riabilitazione degli insorti e nella costruzione e potenziamento di infrastrutture, scuole, mercati e sussistenza alle vittime dell’insurrezione di 15 anni fa. A oggi Zulum – promotore del piano adottato dalle Nazioni Unite – ne evidenzia l’impatto positivo di circa 300 mila insorti arresi nell’ambito del programma. Un numero che, a ben vedere, suona come un’impercettibile nota in “do maggiore”. Come la speranza di una salvezza cresciuta là dov’è il pericolo. Come un segnale propizio, benché sommerso da inondazioni o riarso di siccità.



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