Le nuove frontiere della Danimarca alla Presidenza UE
Tutte le sfide della Danimarca, alla guida dell’Unione Europea, nell’analisi di Francesco Mattarella

Lo scorso 1° luglio ha avuto inizio la Presidenza danese dell’Unione Europea. Trattasi di un Paese in cui né la pubblica opinione né i Governi, per la fierezza del proprio passato di potenza marittima e coloniale, sono per tradizione propensi ai processi di integrazione e ancor meno alla cooperazione sovranazionale in genere. Ne è testimonianza l’iniziale rigetto per il referendum di ratifica del Trattato di Maastricht ma anche la vigente permanenza al di fuori dall’area dell’euro.
Ha aderito alla CEE, insieme a Regno Unito e Irlanda, il 1° gennaio 1973, con referendum fortemente voluto dal Primo Ministro Jens Otto Krag. È entrata nello Spazio Schengen il 25 marzo 2000. Sempre nel 2000, il Ponte sull’Orensund di collegamento con la Svezia, giunta nell’Unione nel 1995, parve un ulteriore segnale di integrazione anche nell’ottica, che avrebbe espresso vent’anni dopo Papa Francesco, della costruzione di ponti in luogo di muri.
Al suindicato rifiuto a Maastricht ha poi fatto seguito l’adesione con la concessione da parte dell’Unione delle condizioni di eccezione ovvero quattro punti relativamente ai quali non avrebbe partecipato all’Unione medesima. Adesso l’alleanza economica, come quella militare, sembra poste di fronte a seri e gravi rischi. Il verbo “sembrare” non è casuale poiché proprio adesso, posta le ambizioni verso la Groenlandia, la Danimarca ne necessita e ha l’occasione di farsene promotrice.
L’avevano definita “il Paese degli opt-out”, delle continue eccezioni ottenute in materia giuridica come nella res militaris mentre adesso l’82% (di fronte a una media europea del 66%) dei suoi abitanti si dichiara europeista in funzione difensiva. La politica estera del Regno è divenuta filoeuropea al punto che attualmente la Danimarca partecipa a quindici progetti di collaborazione dell’Unione.
È uno Stato tradizionalmente antimilitarista come in genere nella cultura del Nord Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Attualmente si sta riarmando e ha aumentato la spesa militare negli ultimi tre anni dall’1,3% al 3,2% del PIL. Ha financo esteso la durata del servizio di leva da quattro a undici mesi oltre a renderlo obbligatorio pure per le donne.
L’effetto della mutata situazione internazionale si palesa in un sondaggio secondo il quale l’opinione pubblica danese risulta, insieme a quelle di Polonia Regno Unito Estonia e Portogallo, tra le più favorevoli in Europa all’aumento delle spese collettive per la difesa.
Non difettano d’altra parte i precedenti in tal senso pur nella storia di una nazione la quale vive con fierezza il proprio Regno elevato a tale dignità sin dall’VIII secolo per l’opera unificatrice compiuta dal Re Godfred. Siffatto orgoglio di patria non impedì la promozione, da parte di Margherita I nel 1397, dell’Unione di Kalmar che mirava alla creazione di una forte entità statale nel Nord Europa al fine della resistenza alle ambizioni dell’Impero Carolingio. Può questa ritenersi un’Unione Europea o un’EFTA ante litteram?
L’invasione tedesca durante la Seconda guerra mondiale aveva già contribuito, unitamente al pericolo sovietico nell’immediato dopoguerra, a rendere la Danimarca conscia della necessità di alleanze mirate alla difesa. Per tali ragioni la sua politica estera è stata volta dopo il 1945 a una stretta collaborazione, nella quale si inserisce il ruolo di membro fondatore della NATO nel 1949, con gli USA.
Negli ultimi mesi si è tuttavia posta l’imprevista necessità di protezione della Groenlandia, che non è parte dell’Unione Europea ma appartiene al Regno di Danimarca, dalle mire manifestate da Washington. Sta avvenendo in merito un episodio inedito nelle rivendicazioni militari di un Paese Nato verso un altro Paese Nato. È difficile in tal senso ritenere precedente la divisione di Cipro tra la parte greca e la parte turca non essendo attualmente l’isola de quo un Paese Nato (forse lo diventerà stante domanda presentata in autunno 2024). E neppure lo si può ravvisare un in Ulster ove, al di là della tradizionale poca benevolenza tra il Regno Unito e l’Irlanda, i due Paesi non si sono combattuti dopo l’adesione alla Nato: gli atti violenti contro il Governo britannico sono stati opera del terrorismo dell’IRA e non della Repubblica d’Irlanda la quale è anzi pervenuta, d’intesa con il Regno Unito medesimo, ad una composizione pacifica della questione alla fine degli anni ’90.
Rinverremmo altresì un unicum in un conflitto tra due regimi democratici dopo la Seconda guerra mondiale eccezion fatta per gli scontri nel Kashmir tra le incompiute democrazie di India e Pakistan.
Nella stessa Groenlandia si esprimono peraltro desideri indipendentisti sia dalla Danimarca che dagli USA. L’esiguità della popolazione ci farebbe suggerire ai pacifici Inuit di mantenersi tali viste le alternative. Talvolta i lasciti di un passato coloniale possono essere migliori delle alternative. Valga quale esempio il trasferimento di Hong Kong dai coloni britannici alla dittatura cinese.
L’esigenza di protezione di detta isola si era già presentata durante la Seconda guerra mondiale con lo sbarco degli Alleati a scopi difensivi dalla Germania e l’installazione all’uopo di basi aeree. La successiva istituzione della NATO avrebbe poi trovato un corollario nell’accordo Defence of Greenland tra Danimarca e USA il 27 aprile 1951.
La difesa armata ha ovviamente dei costi e sotto questo profilo è giusto e doveroso ascoltare le argomentazioni degli amici americani i quali da soli sostengono il 66% delle spese dell’Alleanza a fronte del 30% dei membri europei. Si individua in merito un filo conduttore per il quale le amministrazioni statunitensi degli ultimi vent’anni hanno richiesto agli alleati la condivisione di un impegno crescente. Non si dimentichi che il primo Presidente americano che ha parlato di spese militari al 5% non si chiamava Donald Trump ma Barack Obama. È peraltro vero che gli stessi USA spendono nella difesa il 3,4% del PIL anziché il 5% ma il 3,4% del loro PIL è stato pur sempre di 895 miliardi dollari nel 2024, anno in cui il Presidente in carica si chiamava Joseph Biden.
Ritornando sulla Groenlandia, si nota come questa sia oggetto di attenzione anche sotto il profilo ambientale per lo scioglimento dei ghiacci generato dall’effetto serra. Anche da questo punto di vista, non apparendo l’attuale amministrazione americana particolarmente sensibile in tema di sostenibilità, potrebbero sorgere, precipuamente in questa estate torrida in tutto il Vecchio Continente, ragioni di attrito con il transoceanico potente interlocutore. Il Governo danese ha peraltro già menzionato la difesa dell’ambiente e delle attività ad esso connesse, con precipuo riferimento all’agricoltura e alla pesca, tra gli obiettivi del corrente semestre di Presidenza.
Inoltre, la suindicata liquidazione (in senso fisico, non economico) della Regione Artica ha dato accesso alle rotte polari di navigazione e anche in tale ambito la Groenlandia, fino ad ora difesa da un contingente simbolico di soli 200 soldati di Copenaghen, diventa strategica come mai nel passato.
Proprio in quest’area di mondo la Danimarca ha assunto il 12 maggio scorso la Presidenza del Consiglio Artico e la manterrà fino al 2027. Di tale organizzazione fanno parte otto nazioni tra le quali gli USA e la Russia anche se quest’ultima è stata ufficiosamente sospesa dai lavori dopo l’invasione dell’Ucraina. Le prime dichiarazioni delle autorità di Copenaghen in tale veste hanno insistito sulla tutela delle popolazioni artiche. In other words: la Groenlandia non si tocca.
Il Regno ha altresì nominato il nuovo ambasciatore all’Artico e lo ha fatto nella persona di un groenlandese: Kenneth Hoegh, capo della rappresentanza diplomatica della Groenlandia a Washington. Nel frattempo, la Russia ha intensificato le proprie attività sottomarine nell’Artico con frequenza sempre maggiore.
A complicare ancor di più lo scenario ci pensa la Cina che si è autodefinita nel 2018 un “near arctic State”. Il Dragone è lontano dall’Artico ma si avvale dell’alleanza con la Russia che fa transitare le navi cinesi nella regione. Pechino vuole espandere la sua influenza nella zona e il tentativo più evidente è stato la velleità di finanziare la costruzione dell’Aeroporto di Nuuk inaugurato in Groenlandia nel dicembre 2024. Simile operazione finanziaria è stata impedita dalla congiunta reazione di Danimarca e USA. Ci chiediamo cosa avverrebbe se si verificasse adesso un desiderio analogo da parte cinese. Come reagirebbe l’alleato transoceanico di fronte alle mire di una nazione che è peraltro la principale fornitrice di litio per l’approvvigionamento delle sue industrie?
Le autorità danesi del secondo dopoguerra avevano sin ora ragionato un po’ come i loro omologhi di Francia e Regno Unito con la gelosia della grandezza statale e coloniale del passato. Ma la Danimarca non ha il Commonwealth e soprattutto non dispone del potenziale bellico, in particolare di quello nucleare, di Londra e Parigi.
Le vestigia della pregressa potenza marittima sono limitate alla menzionata Groenlandia il cui controllo, per le ragioni suesposte, è meno agevole dei decenni addietro nei quali la sua sicurezza è stata garantita dalla potenza militare di quello stesso Paese che adesso sembra volerla minacciare: gli Stati Uniti d’America.
Per quanto suddetto, alcune velleità, quali rispettivamente la fuoriuscita temporanea dalla NATO ovvero la Brexit, già oltremodo ardite per il Governo francese e per quello britannico, appaiono inverosimili per una piccola nazione di meno di sei milioni di abitanti, poco più di un quarto di quelli della sola area urbana di New York.
Un altro fronte delicato è il Mar Baltico ove la Danimarca ha posto dei droni a vela per contrastare la pericolosa flotta ombra della Russia. Il problema è anche qui legato al mutevole rapporto con gli Stati Uniti: questi droni, prodotti dall’azienda californiana Saildrone, sono passibili di disattivazione ove così si decidesse “colà dove si puote ciò che si vuole” ovvero alla Casa Bianca.
A Copenaghen, come in altre nazioni europee, si deve peraltro fronteggiare il tema dell’invecchiamento demografico e delle sue conseguenze in caso di eventi bellici. I danesi, come in generale gli europei, sono forse anziani per combattere. Come ha rilevato qualche commentatore, al Vecchio Continente non mancano solo le armi ma mancano i soldati.
Tale problema viene parzialmente mitigato dall’immigrazione che, come in altri Stati europei, rende la popolazione lievemente più giovane oltreché multiculturale con un’etnia sempre più mediterranea o submediterranea.
Sotto l’aspetto economico, si concerne di una nazione ricca il cui PIL ammonta al 2,2% di quello dell’Unione ma il cui PIL pro-capite è di 48.000 euro, ben più alto della media europea di 37.600.
Il benessere l’aveva indotta, pur beneficiando di cospicui finanziamenti da parte dell’Unione, a far parte, con Austria Olanda e Svezia, del gruppo dei frugali altrimenti chiamati la Nuova Lega Anseatica. Ma le sopraggiunte necessità di investimenti militari hanno provocato un drastico mutamento di prospettiva al punto che lo scorso 3 giugno la Danimarca ha deciso l’abbandono del gruppo austero che “non è il posto giusto per noi” come dichiarato dal Primo Ministro Mette Frederiksen in una conferenza stampa congiunta con la Presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola ove ha aggiunto che l’esigenza di difesa è “il punto di partenza e la conclusione di tutte le discussioni”. Il Governo danese, proprio il parsimonioso governo danese, ha altresì ventilato la possibilità di indebitarsi per le spese militari (c’erano una volta i PIGS).
Non mancano invero le contraddizioni in uno Stato che, se sotto il profilo monetario si mantiene al di fuori dell’area euro come ribadito dal Ministro delle Finanze Stephanie Lose, sotto quello militare ha optato, con referendum del 1° giugno 2022, per l’adesione alla politica di difesa e sicurezza UE.
Essendo poi la guerra contemporanea sempre più informatica e non solo fisica, la Danimarca sta operando un parziale abbandono dei programmi statunitensi Microsoft per l’open source tedesco Libre Office sviluppato dalla Document Foundation di Berlino. L’esigenza di tutela non è qui dovuta alla Microsoft in sé ma alla sottoposizione delle aziende USA, anche in tema di gestione dei dati e della loro riservatezza, alle leggi federali pur al di fuori del territorio americano.
Il Regno ha inoltre ha deliberato l’acquisto di forniture di sistemi difesa aerea a corto raggio da tre fornitori differenti ma tutti europei: MBDA France, la tedesca Diehl Defence e la norvegese Kongsberg Gruppen. Di detti sistemi è prevista l’operatività per il 2026.
L’inedita diffidenza verso gli States non ha comunque distolto il Governo danese dalla firma di un accordo con Washington per l’installazione di basi militari USA in territorio danese. Secondo qualche commentatore si tratta di una captatio benevolentiae per preservare l’integrità della Groenlandia. Ci interroghiamo in merito circa l’opportunità di tale concessione verso una nazione amica che potrebbe diventare nemica. Anche le invasioni barbariche furono precedute da stanziamenti di popoli limitrofi all’Impero Romano con la tolleranza dell’Impero medesimo e persino l’ignaro Moctezuma si era illuso dei buoni sentimenti di Hernan Cortes dopo averlo accolto con onori divini.
Un altro trattato difensivo è stato stipulato con gli USA nel dicembre 2023 e prevede la presenza di militari statunitensi nelle strutture militari della Danimarca. Di questo si attende l’approvazione da parte del Parlamento nazionale. La può concedere nella mutata situazione? La congiuntura creatasi induce a dubitare che questo accordo possa essere attuato nei prossimi tre anni e mezzo.
E intanto il fronte orientale è in difficoltà a tal punto che, a giudizio del Segretario Generale Mark Rutte, le Forze Armate russe stanno producendo in tre mesi la stessa quantità di armi e munizioni che i Paesi NATO collettivamente fabbricano in un anno.
Ma il fronte occidentale è quello che desta più meraviglia per chi ha vissuto la Guerra Fredda nella quale i potenziali pericoli venivano dall’Est. Si registra ora una sinergia di scopi militari con uno Stato pacifico quale il Canada anch’esso allarmato dalle rivendicazioni degli Stati Uniti (le alleanze si fanno da secoli contro il nemico comune: appare incredibile che simile nemico siano gli USA). In tale ambito, lo scorso 23 giugno è stato firmato un accordo tra l’Unione Europea e il Canada. Di quest’ultimo accordo è obiettivo l’acquisizione congiunta di materiali nell’ottica di un crescente coinvolgimento del Governo di Ottawa nella ristrutturazione della difesa europea.
Riuscirà la piccola ma operosa Danimarca a operare una sintesi delle suindicate emergenze e a farla trovare agli alleati (con l’auspicio di arrivare in tempi brevi a un superamento dell’anacronistico principio dell’unanimità per le decisioni da assumere in sede sovranazionale)? Lasceremmo volentieri l’ardua sentenza ai posteri ma la rapidità dei mutamenti geopolitici, il cui repentino divenire sorprenderebbe persino Eraclito di Efeso, non ce ne da il tempo: l’esiguità del tempo è una delle poche certezze per l’Europa nel suo momento più buio dalla capitolazione del Reichstag di ottant’anni or sono.