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Le reazioni negli Usa dopo gli attacchi in Israele

Come hanno reagito le forze politiche americane e l’amministrazione Biden ai drammatici attacchi terroristici in Israele. Il punto di vista di Stefano Marroni

Joe Biden non ha avuto il tempo di elaborare il lutto. Nella notte di Washington, l’8 ottobre scorso, le notizie sull’ampiezza e la ferocia dell’attacco di Hamas ad Israele hanno subito fatto suonare a morto le campane per la iniziativa diplomatica a cui la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato stavano lavorando da mesi, uno storico accordo di pace tra Arabia Saudita e Israele garantito da un’intesa militare con Riyad modellato su quello da sessant’anni tiene legati agli Stati Uniti il Giappone e la Corea, e con la garanzia di significative concessioni all’Autorità palestinesi.

Era il colpo che avrebbe potuto mettere finalmente tra parentesi la figuraccia rimediata dall’amministrazione in Afghanistan, e rimesso in pista la traballante corsa di Biden verso un secondo mandato. Ma lo scenario drammatico che nel corso di poche ore si è squadernato dinanzi al mondo ha subito imposto al presidente e alla sua squadra di mettere da parte i rimpianti e concentrarsi su cosa fare per evitare il peggio. Valutando i pro e i contro di una serie di decisioni che avranno comunque un peso sugli scenari futuri in Medio Oriente, e sulla scena globale.

Era ancora buio negli Stati Uniti quando il segretario di Stato Antony Blinken ha chiamato al telefono i responsabili della politica estera di Egitto e Arabia Saudita, mettendo in cantiere in tutta fretta il viaggio che nei giorni scorsi lo ha portato in Israele e poi in altre capitali dell’area. Anche per minimizzare gli effetti che lo scontro all’ultimo sangue in casa repubblicana – con Donald Trump all’attacco contro Netanyahu - sta avendo sulle nomine all’esame del Senato. Washington deve affrontare la crisi più grave dalla guerra del Kippur del ’73 senza un capo dell’Antiterrorismo al Dipartimento di Stato, e senza ambasciatori in carica in Egitto, Oman, Kuwait, Libano e soprattutto – incredibilmente – Israele: “Non avere dato il via libera alla candidature di Christopher Lew in un momento come questo è un drammatico errore”, ha detto alzando la voce uno dei più solidi alleati di Biden, il senatore democratico Chris Coons, in vista di una audizione fissata al più presto per il 18 settembre. Ma l’impasse coinvolge anche un folto pacchetto strategico di nomine al vertice della Difesa, con lo stop di un falco repubblicano antiabortista, il senatore dell’Alabama Tommy Tuberville, alle designazioni tra l’altro dell’ammiraglio Lisa Franchetti al comando della Us Navy, del generale David Alvin all’Air Force, e ancora dei comandanti della Quinta Flotta e del numero 2 del Comando Centrale, decisivi per le operazioni in Medio Oriente.

Anche per questo il Pentagono ha elaborato ma per ora rimesso nel cassetto – rivela il New York Times - i piani per un possibile intervento diretto delle truppe speciali per liberare gli ostaggi americani nelle mani di Hamas, “un pugno” di ebrei rapiti durante il raid – ha detto Blinken a Gerusalemme - e le decine di cooperanti rinchiusi nell’inferno di Gaza: “Faremo di tutto per riportarli a casa”, ha scandito Biden, attivando una possibile mediazione di Egitto e – soprattutto - Qatar. Ma alle porte, con il passare delle ore, c’è ormai la certezza di un imminente intervento di Israele nella Striscia che sulle prime la Casa Bianca ha provato a sconsigliare, sapendo che il suo prezzo altissimo in termini di civili uccisi provocherà una reazione popolare difficile d gestire per tutti i governi arabi amici e in primi per Riyad, che ha subito addossato a Gerusalemme la responsabilità dell’accaduto: “Israele dovrà fare scelte difficili”, avverte l’ex direttore dell’Antiterrorismo Usa, Christopher Costa. Ma il varo del governo di unità nazionale varato da Benjamin Netanyahu apre alla strada a un attacco destinato a “spazzare via Hamas dalla faccia della Terra”, per dirla con il ministro della Difesa Yoav Gallant, uno dei cinque membri del Gabinetto di Guerra di cui fanno parte ben due ex capi di Stato Maggiore e fino a ieri leader dell’opposizione, Binyamin Gantz e Gadi Eizenkot.

Per Netanyahu è una porta stretta, ma senza alternative. Gran parte dell’opinione pubblica israeliana gli imputa di aver concentrato tutta l’attenzione sullo scontro politico interno innescato dalle misure per limitare il raggio d’azione della Cote suprema anziché sui pericoli esterni. E ha avuto un impatto fortissimo la ricostruzione di come il premier avesse bollato come “fake news” le informazioni sull’imminente attacco di Hamas fornitegli personalmente dai servizi segreti egiziani, al culmine di una imponente preparazione militare e logistica sviluppata dai terroristi sfuggendo totalmente ai radar di Mossad e Shin Bet.

Un sondaggio condotto l’11 ottobre e pubblicato dal Jerusalem Post rivela che l’86 per cento degli israeliani (incluso il 79 per cento di chi lo ha votato) lo considera il responsabile e della carneficina, e che il 56 per cento ritiene che a guerra finita Netanyahu debba comunque lasciare l’incarico di primo ministro. Non per caso Yair Lapid, il capo dell’opposizione, dopo aver proposto tra i primi un governo di unità nazionale ha annunciato voto favorevole alla sua nascita ma ha rifiutato di farne parte: “Il gabinetto di guerra non può funzionare, aggiungerà solo caos al caos”, ha dichiarato. “Gantz e Eisenkot potranno dare consigli, ma Bibi non li ascolterà. Non c’è modo di prendere decisioni o gestire una guerra, con una struttura così”.

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