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L’economia indiana tra emigrazione e rimesse

Dalle rimesse dei lavoratori ai permessi di studio all’estero: l’India trasforma l’emigrazione in un punto di forza per la sua economia. L’analisi di Guido Bolaffi

L’India avanza nel mondo a suon di record. Infatti, dopo quelli della demografia e dell’economia arrivano oggi anche quelli dell’emigrazione. Secondo l’ultimo World Bank Migration and Development Brief, “With the largest emigrant population in the world - making it the top origin country globally - for the first time a single country, India, is on track to receive more than $100 billion in yearly remittances”.

Un “balzo in avanti” doppiamente rilevante: rispetto agli 83,15 miliardi di dollari del 2020, il dato rappresenta per Delhi un significativo aumento quantitativo degli introiti dall’estero e, soprattutto, consente al gigante indiano di allungare di molte lunghezze rispetto alla Cina per quanto concerne la sua leadership nella classifica mondiale delle rimesse. Evento, questo, reso ancor più significativo dal fatto che, secondo gli ultimi dati forniti dal Dipartimento di Stato USA sui visti di ingresso in America concessi agli studenti stranieri, gli indiani (77.799) supererebbero per la prima volta i cinesi (48.145).

Di qui l’orgoglio con cui lo scorso 9 gennaio il governo indiano, capeggiato dal Premier Modi e dal suo ascoltatissimo Ministro degli Esteri Jaishankar, ha dato il via alla diciassettesima edizione della Pravasi Bharatiya Divas (la Giornata degli Indiani all’Estero). Un evento la cui data – vale forse la pena sottolineare – nasce in ricordo del lontano 9 gennaio 1915, quando Mahatma Gandhi rimise piede, di ritorno dal Sud Africa, sul suolo patrio e che, con il passare degli anni, ha progressivamente assunto una valenza ben più ampia.

Un cambiamento così riassunto da Sourav Roy Barman nell’articolo Indian abroad: History, spread, remittances: “Over the years, the convention has grown in size and scope, particularly since 2015, when the Ministry of External Affairs turned the event into a biennial affair [...] The Indian diaspora has grown manifold since the first batch of Indian were taken to counties in the east pacific and Caribbean islands as indentured labourers [...] The 19th and early 20th centuries saw thousands of Indians shipped to those counties to work on plantations in British colonies which were reeling under a labour crisis due to the abolition of slavery in 1833-34 [...] After many years the last wave of Indian migration saw professional heading to western countries and workers going to the Gulf and west Asian Countries in the waka of the oil boom”.

L’enorme diaspora degli indiani all’estero, secondo le più recenti statistiche dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) limitatamente ai paesi nei quali essa supera il milione, sarebbe così distribuita:

- Stati Uniti (4.4 milioni);

- Emirati Arabi Uniti (3.4 milioni)

- Malesia (2.9 milioni);

- Arabia Saudita (2.6 milioni);

- Myanmar (2 milioni);

- Regno Unito (1.7 milioni);

- Canada (1.7 milioni);

- Sri Lanka (1.6 milioni);

- Sud Africa (1.5 milioni);

- Kuwait (1.2 milioni).

Una distribuzione geografica che testimonia, più e meglio delle parole, la double face dell’emigrazione indiana. Infatti, le fasce professionalmente più qualificate, anche se in costante, significativo aumento, sono ancora una minoranza rispetto a quelle delle categorie a bassa manovalanza.

Tanto è vero che Sourav Roy Barman, nell’articolo citato in precedenza, a fronte degli entusiastici peana rivolti ai “most talented migrants” nel corso della Convention dello scorso 9 gennaio ha fatto presente, da buon professionista dell’informazione, che il Parlamento indiano in un documento pubblicato lo scorso agosto: “It expressed apprehension that low/semi-skilled and blue collar workers abroad may not find place or feel comfortable to partecipate in the said celebration as the general profile of participants is seen to be very high level. The Committee have a strong view that the participation and involvement should be more broad-based accommodating the vulnerable sections of the diaspora community too”.

L’India è, dunque, oggi ad un bivio anche sull’emigrazione. Perché, scriveva anni fa il Nobel dell’economia Amartya Sen nel saggio La doppia anima dell’India, “Se in passato la stragrande maggioranza degli emigrati indiani svolgeva lavori modesti, oggi la situazione è diversa. Si tratta, infatti, anche di ricercatori o di persone assunte a dirigere reparti tecnici che quando tornano hanno una significativa professionalità ed acquisito notevoli competenze dirigenziali oltre ad aver raggiunto un livello tecnico eccellente. L’apertura al mondo della scienza e della tecnologia è fra i doni più benefici della cultura pluralista dell’India”.

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