L’operazione “Midnight hammer” e la reazione della base repubblicana
Le reazioni della base repubblicana all’intervento militare americano in Iran e alla successiva tregua con Israele. Il punto di vista di Stefano Marroni

Prima del 21 giugno, sarebbe stato logico attendersi che il mondo MAGA sarebbe esploso, di fronte a un attacco diretto all’Iran che potrebbe spalancare davanti all’America l’ennesima “guerra infinita” in Medio Oriente. Per oltre un decennio, Donald Trump ha costruito il consenso anche giurando che con lui si sarebbe finalmente voltato pagina sulla tradizionale vocazione interventista della politica estera americana, con la serie di presidenti democratici e repubblicani-soltanto-di-nome che “hanno mandato i vostri figli a morire – diceva - in paesi di cui non sapete nemmeno il nome”.
Eppure, con l’azzardo su cui indubitabilmente gioca gran parte del suo futuro il tycoon sembra aver alzato un’onda meno alta del previsto tra gli americani che stanno con lui. I giornali registrano tra gli elettori l’incertezza di chi spera che sia solo un episodio, e non il rovesciamento di una filosofia. Qualcuno dei MAGA più noti – Steve Bannon, Tucker Carlson, Marjorie Taylor Greene – ha alzato la voce sui media, subito rimbeccato dalla larghissima maggioranza dei tradizionali falchi del Gop, convinti con Mark Levine di Fox che “è Israele che può mettere fine alle guerre eterne, e noi al fianco di Israele”. I primi sondaggi tra gli elettori repubblicani segnalano disagio ma non dissenso aperto, con un deciso no solo alla prospettiva di andare “boots on the ground” a finire il lavoro sui reattori degli ayatollah. Ma una rivolta non c’è stata, a riprova di come - per ora almeno – le antenne di Trump abbiano letto bene i pensieri di chi lo ha rivoluto alla Casa Bianca. E anche se è per questo, probabilmente, che fin dalle prime ore di dopo l’attacco Marco Rubio si è affrettato dire che “non siamo in guerra con l’Iran”.
Che l’equilibrio attuale possa durare, è lontano dall’essere certo. Ma per ora la tregua accettata da Iran e Israele dà modo a Trump di rivendicare con la sua base- e per esclusivo suo merito - un successo innegabile, e la conferma che la sua filosofia negoziale – la pace attraverso la forza – regge anche le prove più dure. Sono gli elettori dell’America First i destinatari principali di una comunicazione e che non ammette dubbi sugli esiti delle sue scelte. Col paragone tra la “spettacolare” azione dei B2 su Fordo e la bomba sganciata nell’agosto del ’45 su Hiroshima per costringere il Giappone alla resa. E soprattutto con la reazione rabbiosa al modo in cui i media hanno riportato – “Fake news”, le ha definite - le prime valutazioni dell’intelligence americana sulla reale portata dei danni agli impianti di arricchimento dell’uranio: “Il nostro devastante attacco su Fordo ha distrutto le infrastrutture cruciali del sito e reso totalmente inutilizzabile l’impianto di arricchimento dell’uranio”, ha detto a L’Aja, inserendo di suo quel “totalmente” che nel comunicato diffuso alla stampa non c’era. “Pensiamo di averli colpiti con un tale durezza e velocità che non possono essere riusciti a spostare il carburante atomico altrove”, ha aggiunto a beneficio dell’AIEA, che sospetta esattamente questo: “A quest’ora – ha assicurato Trump - è sepolto sotto tonnellate di granito, cemento e acciaio”.
Solo una decina di giorni fa, un esito del genere sembrava fantascienza. Ma la svolta del Comandante in Capo è stata rapida, e sorprendente. Era solo maggio quando il presidente licenziò con un post il falco Michael Walz, sostanzialmente proprio perché sospettava che l’allora consigliere alla Sicurezza Nazionale - raccontarono a Washington i bene informati – stesse segretamente concordando con Netanyahu un piano di attacco all’Iran. Poi, paradossalmente ma non troppo, nelle settimane successive il cambio di passo del presidente ha coinciso con la crescente influenza dietro le quinte di un ufficiale che per convinzioni e storia personale è stato tra i più vicini a Walz, il generale Michael Erik Kurilla. Decorato anche lui in Iraq, e dal 2022 capo del Central Command delle forze armate americane , “the Gorilla” – come lo chiamano al Pentagono - è l’uomo che nelle ultime settimane ha convinto prima il segretario alla Difesa Hegseth e poi Trump della necessità di concentrare molti più uomini, aerei e unità navali nello scacchiare mediorientale, riuscendo a spostare nell’area ben due portaerei sottratte allo spiegamento nell’Indopacifico: una svolta maturata in apparenza contro il parere del capo di Stato Maggiore della Difesa Dan Caine e soprattutto di Elbridge Colby, il vicesegretario alla Difesa che a Washington considerano il teorico più autorevole del disimpegno americano da Europa e Medio Oriente in nome del contenimento della minaccia cinese.
Con questi antefatti, i colpi assestati da Trump ad alcuni dei suoi più fedeli sostenitori alla vigilia di Midnight Hammer acquistano un altro senso. Dai radar della Casa Bianca è sostanzialmente sparita Marjorie Taylor Greene, la deputata di New York e MAGA della prima ora convinta che “chiunque spinga per l’intervento americano al fianco di Israele non è e non può essere considerato davvero un fautore di America First". Ma è andata peggio a un membro del governo come Tulsi Gabbard, l’ex deputata democratica reclutata da Trump proprio per le sue posizioni contro le “guerre infinite” di Obama e di BIden e voluta a sorpresa a capo dell’intelligence. Il presidente gli aveva mandato a dire fuori dai denti di non apprezzare le sue critiche a Netanyahu e le intemerate contro” i guerrafondai e i mercanti di morte”. E ricordando come fosse volata a Hiroshima a testimoniare il “mai più!” della nuova politica Usa ha aggiunto: “Capisco che cerchi visibilità- gli ha detto – ma se vuoi correre da presidente non puoi fare parte della mia amministrazione…”. Poi, ormai a ridosso della decisione di attaccare, Trump è passato alle dichiarazioni pubbliche per assestare un tremendo uno-due alla persona che ogni giorno gli invia i rapporti riservati dell’intelligence americana. Quando gli hanno fatto notare che a marzo, in un rapporto al Congresso, Gabbard aveva riferito che secondo la Cia l’Iran è ancora lontano dall’avere la bomba, e mancasse ancora addirittura un via libera dello stesso Khamenei, il presidente è stato secco: “Non mi interessa quello che dice, si sbaglia”, ha detto. “Sembra invece che abbia ragione io a proposito dell’uranio arricchito che hanno già messo insieme. È già moltissimo. E penso che sia questione di settimane or al massimo o di qualche mese, perché siano in grado di fabbricare l’atomica. E non possiamo lascare che accada”.
Stessi toni pubblici con Carlson, l’ex star di Fox News che a lungo è stato uno dei maggiori corifei del MAGA pensiero nello scontro di Trump con il vecchio establishment repubblicano. Prima, ha fatto sensazione il botta e risposta con Ted Cruz, il senatore della Florida e vecchio avversario del tycoon che ha subito sposato la linea dura dell’amministrazione contro l’Iran. Carlson lo ha invitato nel suo show e non h perso tempo: “Vediamo - gli ha chiesto – quanti abitanti ha l’Iran?”. “Non ne ho idea”, ha replicato il parlamentare. “Mi vuol dire che non ha idea di quanta sia la popolazione che lei vuol bombardare?”. La clip, della durata di circa 97 secondi, ha fatto presto il giro del web. Ma Carlson successivamente è andato oltre, accusando Trump di complicità con Israele nel preparare la guerra: “Qualcuno per favore spieghi allo strampalato Tucker Carlson – ha ribattuto il presidente su Truth - che l’Iran NON POTRA’ MAI AVERE ARMI NUCLEARI”. Poi, ha fatto sapere ancora Trump, la tempesta si è placata: “Tucker mi ha chiamato – ha raccontato Trump – scusandosi per essere andato sopra le righe. In fondo è un bravo ragazzo…”.
Stesso copione per il battibecco con Steve Bannon, tra i più sorpresi della piega degli eventi. Ancora poche ore prima dall’attacco, il guru dell’alt-right lodava Trump per essersi preso del tempo e attaccava Netanyahu: “America first non può esser Israele first. Netanyahu ha cercato di forzare la situazione, dando per scontato che avrebbe costretto gli Usa a seguirlo. Ma Trump non si farà mai coinvolgere in una situazione del genere: non credo che la gente Maga voglia sentirsi dire le cose che gli ho sentito dire in queste ore…”. Sabato, dopo l’attacco, su War Room ancora un post amaro rivolto direttamente al presidente: “Non ci è sfuggito che lei abbia ringraziato Bibi Netanyahu, che invece io penso sia l’ultimo al mondo che dovrebbe ringraziare. Perché penso che non siamo stati noi a dare le carte…”. Una delusione, che però non sembra il preludio di uno strappo: “Alla fine, ovviamente – ha confessato a un collega – non potremo che salire sulla sua barca…”. Come Gabbard, Carlson e Taylor Greene.