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L’ultimo viaggio di Blinken in Medio Oriente e la guerra a Gaza

La guerra di Gaza, l’ultimo viaggio in Medio Oriente di Blinken e la partita diplomatica nella regione. Il punto di vista di Stefano Marroni

La sensazione di uno stallo, la percezione evidente che le finestre di dialogo con il mondo arabo si stiano a mano a mano chiudendo, la certezza ormai che Benjamin Netanyahu non ha nessuna intenzione di chiudere in fretta la guerra che si combatte ogni giorno a Gaza, e di disinnescare per quanto possibile il rischio crescente di una deflagrazione totale in tutto il Medio Oriente. Antony Blinken è tornato a Washington portando brutti segnali dalla sua ennesima missione nell’area di crisi, la quarta nei quattro mesi dal blitz di Hamas nel sud di Israele con la sua scia di morti e di orrore. Incassando un secco no del premier israeliano all’accordo per un cessate il fuoco faticosamente imbastito dal segretario di Stato americano con i suoi interlocutori egiziani e qatarini. E avvertendo Biden che il governo israeliano ha chiesto invece ai militari di elaborare piani per l’evacuazione anche dall’estremo sud della Striscia di oltre un milione e quattrocentomila palestinesi che ci si sono ammassati a Rafah dopo l’attacco di Tsahal all’indomani del 7 ottobre: un’iniziativa che per gli Stati Uniti “sarebbe un disastro”.

La tensione ormai quasi irrimediabile tra gli Stati Uniti e il loro più importante alleato nello scacchiere è così evidente che nemmeno i suoi protagonisti lo nascondono più. Per la prima volta, al termine del loro colloquio, Netanyahu e Blinken non si sono presentati insieme ai giornalisti. Poco dopo la fine dell’incontro, il premier israeliano è andato da solo in conferenza stampa sostenendo che “accettare le folli richieste di Hamas che ci sono appena state riferite non porterà alla liberazione degli ostaggi e aprirà solo la strada ad altri massacri”, parlando a un pezzo della opinione pubblica israeliana e ai suoi alleati di estrema destra: che arma i coloni ed è assolutamente contraria all’idea anche di una sospensione delle ostilità che invece chiede la maggior parte delle famiglie degli ostaggi, che da settimane manifestano contro Netanyahu. Gruppi di attivisti di estrema destra da giorni tentano di impedire anche il flusso di cibo, acqua e medicinali a Gaza, e mercoledì scorso – ha rivelato Haaretz - Blinken ha dovuto cancellare una visita al check point di Kerem Shalom di fronte all’indisponibilità della polizia israeliana a rimuovere i blocchi organizzati dai manifestanti.

Ai giornalisti, il segretario di Stato ha detto che nonostante nella proposta di Hamas ci fossero “evidenti vicoli ciechi”, l’azione dei paesi arabi alleati di Washington aveva aperto spazi di negoziato percorribili. “Spetta agli israeliani – ha detto Blinken – decidere cosa vogliono fare, quando farlo, e come. Nessuno vuol prendere decisioni al loro posto: a noi spetta mostrare quali sono le opzioni sul tavolo e che futuro possano aprire e confrontarlo con l’alternativa: che oggi sembra quella di un ciclo infinito di violenza, distruzione e disperazione”. Ma più in generale – riferiscono i media americani – nel corso della missione Blinken si è reso conto che ormai le possibilità per Washington di far correggere il tiro a Netanyahu cozzano contro un doppio muro: le esigenze di politica interna di un premier che nella prosecuzione delle ostilità sembra aver trovato una sorta di polizza di sopravvivenza, e la non dichiarata (ma ormai evidente) scommessa della destra israeliana sul fatto che tra meno di un anno sia un altro inquilino della Casa Bianca a tirare le fila della politica estera americana.

È l’effetto del cosiddetto “Trump Put”, l’espressione presa di peso dal gergo di Borsa per segnalare chi ormai – da Wall Street a Putin a Xi – punta su un ritorno del tycoon di New York alla Casa Bianca, sullo sfondo di una campagna elettorale che dopo l’ennesima disfatta di Nicky Haley nel Nevada sembra dare la quasi certezza di una riedizione del duello del 2020. Un duello più incerto che mai, ma che vede Trump – ormai padrone assoluto del Gop – giocare come se il vento soffi solo dalla sua parte. Anche per questo ormai Joe Biden non nasconde più l’irritazione con il governo israeliano, in un crescendo di toni che fa ancora più notizia per la tradizionale vicinanza del presidente ad Israele: “Io credo come sapete – ha detto in un nervoso punto stampa alla Casa Bianca – che la risposta israeliana a Gaza è andata oltre i limiti accettabili. Ho spinto a fondo, veramente a fondo, per fare arrivare assistenza umanitaria alla popolazione della Striscia, dove molti innocenti stanno morendo per i bombardamenti e per la fame. Tutto questo deve finire”.

Il punto è che i democratici sentono sempre più il terreno scivolare sotto i loro piedi, col presidente che perde colpi anche quando le cose in apparenza sembrano girare in suo favore. Come quando nei giorni scorsi il procuratore speciale Robert Hur – che indagava su una sua negligenza nel conservare e utilizzare alcuni dossier riservati dopo la fine del suo mandato da vicepresidente – ha rinunciato a chiedere l’impeachment mettendo nero su bianco che sì, a suo tempo Biden aveva deliberatamente portato a casa quei documenti per parlarne con il suo ghostwriter: ma che non avrebbe senso incriminarlo perché qualunque giuria avrebbe avuto comprensione di “un buon uomo anziano dalla memoria debole”, “incapace di ricordare l’anno in cui morì suo figlio Beau” e persino di indicare gli anni durante i quali in cui fu vicepresidente al fianco di Barak Obama.

Biden – che il trumpiano Breibart News crocifigge da settimane per aver confuso Mitterand con Macron e aver raccontato di un colloquio su Gaza col defunto cancelliere tedesco Helmut Khol – ha reagito furiosamente: “Non c’è bisogno che nessuno mi ricordi quando mio figlio è morto”, ha detto, raccontando che durante l’inchiesta, nei suoi colloqui con Hur, si era chiesto “come diavolo osasse farmi domande sulla scomparsa di Beau. Francamente, quando mi ha fatto la domanda, ho pensato tra me e me: ‘Ma davvero questi sono fatti suoi?’. La semplice verità è che sono stato per due giorni, per cinque ore di seguito, a rispondere su fatti che risalgono anche a quarant’anni fa. E questo, mentre gestivo una delicatissima crisi internazionale. Ma la mia memoria è a posto”, ha scandito. “Sto bene, sono anziano ma so maledettamente bene quel che faccio. Da presidente, ho rimesso in piedi questo paese”. Salvo, poco dopo, incespicare di nuovo sui nomi, definendo il leader egiziano Abdel Fattah Al-Sisi “il presidente del Messico”.

È una gara, quella sui lapsus e la confusione dei nomi, che non vede affatto attardato su Biden – a 81 anni, nonno di sette nipoti – il settantasettenne Trump, che di nipoti in compenso ne ha dieci. Nicky Halley gli ha più volte rinfacciato di confonderla con la democratica Nancy Pelosi, e sulla rete da mesi girano le immagini di lui che si vanta di “aver già sconfitto Obama” che in realtà non ha mai sfidato.

Il punto è che nell’opinione pubblica la percezione che l’età sia un problema riguarda più Biden che Trump. Tutti i sondaggi hanno messo in evidenza il profondo allarme degli elettori per l’età del presidente. Secondo l’ultimo, della Nbc, il 76 per cento degli americani nutre una grave (62 per cento) o moderata (14 per cento) preoccupazione per le condizioni fisiche e mentali in cui Biden dovrebbe affrontare il suo secondo mandato: e ancora più grave è che lo pensi l’81 per cento degli elettori indipendenti e persino il 54 per cento degli elettori democratici. Mentre solo il 48 per cento degli americani pensa lo stesso di Trump: “Se accendi Fox News, vedi solo le immagini di un Biden che farfuglia e annaspa per cercare le parole”, si è sfogato su Politico il consigliere di un importante finanziatore del presidente. “E se vai su Tik Tok o Instagram ci sono tonnellate di video che ironizzano sulla sua età. E così più la cosa si ripete, più alimenta il massacro”.

David Axelrod, l’ex guru di Obama finito nel mirino della Casa Binaca per aver messo in guardia i democratici dall’incognita dell’età di Biden, ci ha messo del suo sul New York Times: “E’ inutile prendersela perché la relazione di Hur è stata sleale. Che lo sia o no, non puoi far smettere alle campane di suonare. Il punto è che la sua relazione va al cuore di ciò che sta tarpando le ali a Biden: e cioè la diffusa paura che il presidente non ce la possa più fare. La cosa più devastante in politica – ha aggiunto – è quel che conferma i sospetti che la gente già nutre”.

Lo staff di Biden sta reagendo al fuoco, ma per cominciare ha dovuto – per evitare risonanza planetaria ad eventuali nuove gaffe del presidente – rinunciare ad una sua intervista che sarebbe andata on air immediatamente prima del Super Bowl, lo spettacolo tv più seguito d’America. Bakari Sellers – uno degli strateghi del partito democratico – sostiene che in realtà tutto sarebbe stato più complicato alla immediata vigilia del voto: “La benedizione di Biden – spiega - è che era anziano prima del rapporto Hur, e lo sarà dopo. Tutti sappiamo che lo è”. Intanto lui, il Comandante in capo, tira diritto: “Sono la persona più qualificata in questo paese per fare il presidente. E finirò il lavoro che ho iniziato”.

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