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Mali, cosa si muove nel Sahel

Parigi tenta di ridimensionare gli effetti negativi del suo disimpegno dal Mali, ma Russia e Cina si incuneano nel vuoto lasciato dall’Eliseo. L’analisi di Alessandro Giuli.

L’Eliseo cerca di ridimensionare l’effetto dirompente del suo parziale disimpegno dal Sahel, che rischia di essere avvolto dall’ombra lunga di un ritiro strategico, paragonabile a quello statunitense dall’Afghanistan. Se il primo ministro di Bamako, Choguel Kokalla Maïga, ha accusato apertamente la Francia di abbandono “en plein vol” dacché Parigi ha stabilito di ridurre la presenza armata in Mali e di sbarrare le basi militari a nord del Paese (Kidal, Tessalit e Timbuctù), il presidente Emmanuel Macron ora rilancia con energia le ragioni di un dialogo ininterrotto con la società civile africana, ponendolo al centro del summit di Montpellier, organizzato venerdì 8 ottobre: un modo per ribadire, non senza qualche fatica, la centralità francese sullo scacchiere continentale nero.

I fatti più recenti, ci restituiscono l’immagine cruda dei contractors russi di Wagner – società privata creata e gestitada Eugeny Prigozhin –, pronti a intervenire contro i jihadisti subsahariani per rispondere all’appello del Governo insediato in Mali dai militari golpisti. Un ruolo già esercitato in Libia e nella Repubblica Centro Africana, incoraggiato dai balbettii multilaterali della comunità internazionale, che stanno lasciando ampio spazio al protagonismo di Mosca.

Giudicata come “un’onta” dal Ministero della Difesa francese, la denuncia di Maïga non ha impedito che l’omologo di Florence Parly, il colonnello Sadio Camara, incontrasse per un colloquio bilaterale il generale Laurent Michon, responsabile della missione Barkhane. L’incontro aveva un obiettivo rassicurante, raggiunto soltanto in parte: la riarticolazione del dispositivo militare francese, in stretta collaborazione con le Forze armate maliane, si concentrerà essenzialmente nella copertura dei reparti regolari (come nel recente caso del contrattacco nella località di Tessalit, nel nord del Pese), in un costante supporto aereo e nella riconfermata gestione della task force europea Takuba nella regione delle Tre frontiere, a cavallo con Burkina Faso e Niger.

Ciò detto, possiamo allargare lo spettro visuale e incrociare un simmetrico agitarsi di buoni propositi da parte dell’Alleanza Atlantica, che ribadisce la volontà di garantire un peace keeping aggressivo, di concerto con la Forza Congiunta del G5 Sahel nata nel 2014 fra Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad assieme a Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Alla riduzione del contingente francese, pari a circa il 40% degli effettivi (da 5.100 uomini a 2.500-3.000), dovrebbe far riscontro un maggiore dispiegamento di energie e risorse militari occidentali sotto l’egida della Nato. È questa la promessa fatta pochi giorni fa dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che, in una lettera indirizzata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non soltanto ha sollecitato la creazione di un ufficio di sostegno delle Nazioni Unite, ma ha garantito che l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico intensificherà il proprio sostegno alla presenza multinazionale in Sahel. Il che dovrebbe puntellare uno sforzo, altrimenti destinato a ridursi, al contrasto da parte dell’Onu al traffico di esseri umani e al crimine internazionale. In poche parole: sia pure in modo tardivo e non ancora ben precisato – basti pensare che le missioni internazionali in Mali sono cinque, per lo meno quelle “ufficiali” –, il mondo delle nazioni democratiche sta valutando con preoccupazione crescente l’impatto della “supplenza russa” in uno scenario di crisi che potrebbe condurre al rinvio delle elezioni a Bamako previste nel febbraio 2022 e al consolidamento della special relationship tra Mosca e il blocco militare maliano filorusso, capeggiato dal colonnello Camara e ramificato nelle sue articolazioni dell’Africa subsahariana fino in Mozambico, Sudan e Guinea.

Ma se l’obiettivo comune delle forze in azione è quello di arginare l’avanzata jihadista nel Sahel, la riaccensione dei canali diplomatici da parte di Parigi– dopo che Macron nemmeno un mese fa aveva proclamato la “legittimità democraticamente nulla” del governo maliano – impone anche una riflessione sulla qualità e sul profilo dei soggetti coinvolti. Parigi ragiona in un’ottica di cooperazione non più post-coloniale, sta limitando i conflitti in campo aperto, ma senza per questo rinunciare alla protezione della propria sfera d’influenza storica, attraverso la conferma delle proprie alleanze (vedi il benestare al golpe in Ciad guidato dal figlio del dittatore Idriss Déby) e le ininterrotte “manovre chirurgiche” sotto copertura (in continuità con l’Operation Sabre affidata alle forze speciali e ai servizi d’intelligence militare). Nel frattempo, Russia e Turchia s’incuneano nel vuoto strategico lasciato da un’Europa ancora lontana da una Realpolitik meno idealista e rivolta alla concreta necessità di una Difesa integrata con proiezione internazionale. Tutto ciò in attesa di comprendere se, e quanto, la Germania, nazione guida europea in attesa di un nuovo Governo, intenderà proseguire nel proprio coinvolgimento nell’area subsahariana (circa mille uomini, la più consistente missione estera votata dal Bundestag nel secondo Dopoguerra).

Parigi, malgrado il riverbero negativo dell’affaire Aukus – il patto militare per l’Indo-Pacifico appena stabilito in funzione anticinese fra americani, australiani e inglesi – ha intanto incassato dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, la promessa di una maggiore cooperazione in Sahel. Un dossier ormai periferico nell’agenda di Washington, che pure non ha fatto mancare, finora, un imponente sostegno logistico e che invece esigerebbe la massima attenzione di Bruxelles.

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