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Nuovi tentativi di dialogo tra Turchia e Armenia

Per la terza volta negli ultimi trent’anni Turchia e Armenia hanno avviato un tentativo di normalizzazione delle loro relazioni bilaterali. Il punto della situazione di Claudia De Martino

Per la terza volta dopo i tentativi operati nel 1992-93 e nel 2008, Armenia e Turchia provano ad avviare una normalizzazione delle loro relazioni bilaterali superando i tradizionali fattori di attrito, tra cui figurano l’annosa questione del riconoscimento del genocidio armeno (1915) e il recente conflitto del Nagorno-Karabakh (settembre-novembre 2020), in cui la Turchia ha sostenuto l’Azerbaijan contribuendo indirettamente alla disfatta dell’Armenia.

La recente sconfitta militare armena ha pesato sull’economia del Paese, la cui crescita si è pesantemente arrestata nel 2020, e impattato sugli equilibri interni, provocando un tentativo di colpo di Stato nel febbraio 2021, costringendo il Primo ministro armeno Nikol Pashinyan, leader del partito centrista Contratto civile (K'aghak'atsiakan paymanagir), a ricalibrare le relazioni estere con la Turchia, in stasi dal 2010. Tuttavia, alla decisione del Premier armeno non è indifferente la pressione di Mosca, che opera a favore della normalizzazione con Turchia e Azerbaijan per isolare la Georgia nel contesto regionale. La Federazione russa rappresenta, infatti, ad oggi il principale partner commerciale e militare dell’Armenia. L’economia di Yerevan si basa sull’estrazione mineraria ed è dipendente dalla Russia sia nella commercializzazione della sua produzione, che per le importazioni di petrolio liquefatto e raffinato, rispettivamente acquistati da Mosca per l’83.7% e 72.6% (dati 2021). Dal punto di vista militare, la dipendenza strutturale di Yerevan è ancora più evidente, con la comune appartenenza dei due Paesi all’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) dal 2002, la firma nel 2015 di un accordo di difesa che prevede il varo di unità permanenti di terra congiunte, l’apertura di una base militare russa nel nord (Gyumri) e l’acquisto massiccio di armi russe. Dato lo stretto legame con il suo potente vicino ortodosso, è indubbio che la recente apertura di Pashinyan nei confronti della Turchia abbia risentito della pressione russa.

L’allentamento delle tensioni incontra anche il favore della Turchia. La trentennale contrapposizione tra Baku e Yerevan ha costretto storicamente Ankara a schierarsi a favore dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan, Paese turcofono del Caucaso e suo tradizionale alleato, nonché principale fornitore di gas e maggiore investitore straniero in Turchia tramite la società petrolifera di stato Socar (ISPI, 2020). Per questa ragione, nel 2010 il Presidente Erdoğan aveva interrotto per la seconda volta i negoziati con l’Armenia rifiutandosi di siglare due protocolli di intesa proprio in solidarietà all’Azerbaijan a seguito della ripresa di schermaglie al confine. Tuttavia, Ankara ha tutto l’interesse a cogliere le nuove opportunità di distensione regionale aperte dal cessate-il-fuoco in vigore dal novembre 2020 e dal temporaneo equilibrio ripristinatosi tra i due Paesi rivali. Il 14 gennaio 2022, in un incontro al vertice tenutosi a Mosca tra i rispettivi inviati speciali di Erdoğan e Pashinyan, i rappresentanti dei due governi hanno firmato il primo accordo per un disgelo delle relazioni bilaterali che, omettendo le questioni storiche irrisolte, punti ad un rafforzamento degli interessi comuni ai due Paesi, ed in primis alla riapertura del confine terrestre. Il secondo incontro tra l’ambasciatore turco Serdar Kılıç e il Vicepresidente del Parlamento armeno Ruben Rubinyan è previsto per il 24 febbraio a Vienna.

La Turchia di Erdoğan ha tutto l’interesse a riavviare le rotte commerciali terrestri nel Caucaso: la sua tradizionale linea di politica estera di “zero problemi con i vicini”, in vigore fino al 2015 e principalmente rivolta al Medio Oriente, è naufragata nei confronti di alcuni Paesi arabi, ma resta ancora una direttrice valida anche con i Paesi afferenti ad altre aree, come Asia centrale e Caucaso, che non temono l’influenza neo-ottomana turca. Per la Turchia, è in gioco l’apertura di un corridoio strategico tra l’Azerbaijan e la sua exclave, Nakhichevan/Nahçıvan, attraverso il territorio armeno, con la possibilità di collegare Ankara a Baku via terra, aprendo così anche un potenziale canale di comunicazione diretta tra Turchia e Asia centrale, area di tradizionale irraggiamento del soft power turco. L’obiettivo principale di stabilizzare la regione – a cui contribuisce anche l’Unione Europea con un sostanzioso finanziamento di 2.6 miliardi di euro per l’Armenia e 140 milioni per l’Azerbaijan e che incontra il sostegno dell’Amministrazione Biden –, potrebbe in futuro condurre alla costruzione di un sistema ferroviario integrato tra i tre Paesi (Turchia, Azerbaijan e Armenia). Il processo di normalizzazione in corso ha anche incassato il sostegno della borghesia conservatrice delle piccole e medie imprese anatoliche, in cui si concentra la base dell’AKP – partito del Presidente –, interessata a rilanciare l’imprenditorialità turca nel Caucaso, e quello del Presidente azero Ilham Alyev, favorevole alla potenziale rete ferroviaria integrata tra Teheran, Mosca e Istanbul, alla realizzazione del corridoio di Zangezur e al potenziale ruolo del suo Paese nel TITR, il Trans-Caspian Internaional Transport Route, tratto caucasico del corridoio trans-asiatico Cina-Europa.

La neutralità azera rappresenta, dunque, la rimozione di un ostacolo decisivo per la Turchia, incrementando la possibilità di successo dei negoziati bilaterali in corso, nonostante l’opposizione interna bipartisan del Milliyetçi Hareket Partisi (MHP, Partito dell’azione nazionale) e del Cumhuriyet Halk Partisi (Partito popolare repubblicano), che vorrebbero maggiori garanzie dall’Armenia sull’abbandono definitivo delle ostilità con Baku. Nell’arco di un mese, i due Paesi transfrontalieri hanno avviato una linea di voli diretti e negoziati commerciali su larga scala e abbordato la spinosa questione della riapertura del confine terrestre, ermeticamente sigillato da trent’anni: la Turchia, che è un colosso economico nel campo delle costruzioni, si propone infatti di investire nelle infrastrutture armene, ma la normalizzazione dei rapporti inter-caucasici concorre all’obiettivo più generale di pacificare una vasta area nevralgica interposta tra Teheran e Mosca.

Il terzo round di negoziati armeno-turchi sembra, quindi, poggiare su buone premesse e un accordo di fondo tra le potenze regionali, e tuttavia esso deve confrontarsi con la costante possibilità che il conflitto in Nagorno-Karabakh, assopito ma mai risolto, torni improvvisamente ad infiammarsi – come i recenti incidenti militari del novembre 2021 e del gennaio 2022 stanno a testimoniare –, proiettando un’ombra sulla sostenibilità del processo in atto. Inoltre, l’approccio top-down dei governi armeno e turco potrebbe sì condurre al riallacciamento di relazioni diplomatiche, senza però incassare il sostegno delle rispettive opinioni pubbliche, a maggioranza ostili le une alle altre, soprattutto dopo la creazione di una nuova ondata di 90 mila profughi armeni in fuga dal Nagorno-Karabakh. L’instabilità politica della regione ha, infatti, tenuto finora lontani gli investitori stranieri con forti interessi nell’area, come Cina ed Emirati Arabi Uniti, mentre l’Unione Europea, concentrandosi esclusivamente sulla Georgia, ha dimostrato una certa riluttanza a impegnarsi nella regione. Per funzionare, la normalizzazione avrebbe bisogno di una forte garanzia multilaterale in materia di sicurezza da parte della comunità internazionale, di un accordo regionale per il superamento di dazi doganali e di investimenti internazionali per realizzare infrastrutture-chiave, che né la Turchia né la Russia sono al momento in grado di sostenere, ma che potrebbero cambiare il volto del Caucaso.

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