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Ombre cinesi sulla Tunisia di Saïed

Come la Cina sta tentando di allargare la propria sfera d’influenza in Nord Africa. L’analisi di Alessandro Giuli

La fragilità economico-finanziaria della Tunisia consente alla Cina di allargare la propria sfera d’influenza in Nord Africa e di rivendicare in modo più assertivo i successi raggiunti dal soft power di Pechino. Mentre il presidente Kaïs Saïed, ancora alle prese con il negoziato sul maxi prestito richiesto al Fondo monetario internazionale, cerca di puntellare la propria “autocrazia costituzionale” al cospetto di un Occidente sempre più preoccupato e scettico, il gigante asiatico annuncia il più suo grande investimento industriale in terra cartaginese – 200 milioni di dollari nella costruzione di due centrali per lo sfruttamento dell’energia solare – e per bocca dell’ambasciatore a Tunisi (Zhang Jianguo) ammonisce l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare contro ogni tentativo d’ingerenza sulla sovranità tunisina. Un concetto che esplicita e precisa quanto Saïed va ripetendo nelle ultime settimane in termini più generici e difensivi: “La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano, radicato nei princìpi del diritto internazionale”.

Di là dalle schermaglie dialettiche, i fatti dicono che la Cina sta lavorando a un’imponente crescita degli scambi commerciali con il quadrante maghrebino e scommette sulla Tunisia come testa di ponte, o porta girevole, verso l’Europa e l’Africa subsahariana. La linea di minor resistenza all’incursione cinese risiede nella bilancia commerciale di Palazzo Cartagine il cui deficit, nei primi nove mesi del 2022, ha subìto un’impennata senza precedenti: 19,2 miliardi di dinari contro gli 11,9 del periodo corrispondente nel 2021. Il primo beneficiario dello squilibrio è appunto Pechino, per un volume complessivo di circa 6,6 miliardi di dinari; seguono la Turchia (3mld), l’Algeria (2,5mld), la Russia (2mld), l’Italia (1,7 mld) e la Spagna (0,7 mld). Se si considera che già oltre 200mila cinesi lavorano in Algeria e che Pechino ha appena avviato un nuovo servizio intermodale per raggiungere in 35 giorni l’Africa da Chengdu, passando per il porto di Amburgo (dove giunge il China-Europe railway express) e puntando verso quello di Casablanca in Marocco, non sarà difficile comprendere l’importanza strategica rivestita dal rafforzamento nella cooperazione con la Tunisia. Si tratta di un protocollo d’accordo nel quadro della “Via della seta”, garantito dalla Banca asiatica delle infrastrutture, destinato a raddoppiare gli investimenti cinesi oggi attestati nell’ordine dei 9 milioni di dollari all’anno.

Le contromosse occidentali, al momento, si limitano a una vigilanza politico-militare in vista delle elezioni politiche del 17 dicembre, rispetto alle quali Washington ha sottolineato l’importanza di un “governo democratico”. Il sottosegretario aggiunto con deleghe alla Democrazia, ai Diritti dell’uomo e al Lavoro, Christopher Le Mon, ha recentemente incontrato alcuni rappresentanti della società civile tunisina che invocano “un processo democratico inclusivo che protegga le libertà fondamentali, compresi il diritto alla libertà d’espressione e alle manifestazioni pacifiche”. Contestualmente, il generale Michael Longley, nuovo comandante di AFRICOM, non per caso ha effettuato la sua prima visita proprio a Tunisi. Qui, dopo aver incontrato il ministro della Difesa nazionale Imed Memmich, ha sottolineato il valore del partenariato militare tra le due Nazioni. Nel frattempo, due senatori americani della commissione Affari esteri (Bob Menendez, democratico del New Jersey; Jim Risch, repubblicano dell’Idaho) hanno pubblicamente esortato il presidente Joe Biden a non perdere di vista il dossier nordafricano e a sincronizzare meglio gli sforzi statunitensi con quelli dei partner del G7 per condizionate gli aiuti internazionali a una lotta più concreta contro l’erosione della democrazia tunisina. Quanto all’Europa, al momento gli interessi dell’Unione sembrano principalmente diretti sul FMI, affinché stabilizzi la crisi finanziaria scongiurando l’ipotesi di un default tunisino che aggraverebbe la prospettiva di una libanizzazione del paese con il conseguente aumento dell’immigrazione illegale.

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