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Permane lo stallo politico-istituzionale nella Libia devastata dal ciclone Daniel

Le dighe a Derna sono crollate a causa delle piogge torrenziali, ma simbolicamente non hanno retto alle divisioni interne e ai problemi che affliggono la Libia. Il punto di Daniele Ruvinetti

Hussein Eddeb / Shutterstock.com

Quella dei giorni scorsi a Tripoli è stata una visita che dimostra come “la diplomazia, lo sviluppo e la difesa degli Stati Uniti si concentrino sul sostegno agli sforzi di soccorso a livello nazionale in Libia per aiutare le persone colpite dalle inondazioni”, ha commentato l’inviato speciale americano per la Libia, l’ambasciatore Richard Norland, riferendosi al suo passaggio nella capitale libica insieme al comandante di AFRICOM, Michael Langley, e al responsabile di USAID per il paese, John Cardenas. “Gli Stati Uniti continueranno a sostenere il popolo libico nelle sue richieste per un governo unificato, sotto una leadership democraticamente eletta a guida civile”, aggiunge Norland dando il senso pieno di come Washington stia affrontando l’attuale situazione in Libia.

Come accadde con la poderosa esplosione al porto di Beirut tre anni fa, la catastrofe avvenuta a Derna – il crollo delle dighe che ha provocato la morte di migliaia di persone – è uno di quegli eventi violenti in cui si combinano il destino e il malgoverno, e che quindi potrebbero segnare un momento cruciale per contesti difficili come quello libico (o quello libanese). La speranza è che in Libia si possa sfruttare questa fase per dare impulso a un processo di stabilizzazione e ricostruzione istituzionale, cosa che purtroppo non è avvenuta in Libano. Il rischio è l’escalation delle tensioni sociali verso direzioni incontrollabili, dato che il territorio libico è anche in mano a milizie armate e presenta infiltrazioni straniere di vario genere che potrebbero sfruttare la situazione per aumentare il caos.

Nella tarda serata di lunedì 18 settembre, un gruppo di manifestanti infuriati ha appiccato il fuoco alla residenza del sindaco di Derna. Abdulmenam al-Ghaithi, che era sindaco fino alla tragedia, è stato sospeso dal suo incarico dopo l’alluvione, come riportato da un ministro del governo libico orientale – l’esecutivo non riconosciuto dalla comunità internazionale, che gestisce il territorio in collaborazione con la milizia di Bengasi guidata da Khalifa Haftar. Centinaia di persone in città hanno protestato, esprimendo la loro rabbia contro le autorità e chiedendo che vengano individuati i responsabili per la catastrofe che ha cancellato interi quartieri, vite e speranze, aprendo uno squarcio pubblico sullo stato delle cose nel paese.

Il disastro, come ormai è emerso, è stato causato dalla rottura di due dighe a monte di Derna, costruite da una società jugoslava cinquant’anni fa e che da tempo mostravano segni di cedimento. Non hanno retto all’urto del ciclone Daniel, ma simbolicamente non hanno retto alle divisioni interne alla Libia, causa del malgoverno del territorio – o dell’assenza di governo. Nonostante gli avvertimenti ripetuti da tecnici ed esperti, i segnali sono stati gestiti con lentezza a causa della corruzione e dell’incuria.

Tra i principali bersagli delle recenti proteste di Derna c’è Aguila Saleh, presidente del Parlamento libico che nel 2014 si è auto-esiliato a Tobruk per essere maggiormente indipendente. Saleh è una delle figure politiche più importanti della Libia orientale, uno dei simboli delle divisioni che da oltre un decennio dilaniano il paese. Alcuni degli slogan utilizzati dai manifestanti erano “Aguila, non ti vogliamo!” e “tutti i libici sono fratelli”: messaggi che esprimevano la frustrazione per l’instabilità politica del paese, che continua a essere conteso da due governi paralleli nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite. La popolazione era arrabbiata anche a causa di una dichiarazione di Saleh, che ha definito l’evento come un “disastro naturale senza precedenti” e ha invitato a non concentrarsi su cosa si sarebbe potuto fare per prevenirlo. Parole che hanno alimentato ulteriormente la rabbia della popolazione.

Nel frattempo, la Missione di Sostegno delle Nazioni Unite ha espresso particolare preoccupazione per la contaminazione dell’acqua e la mancanza di servizi igienici dopo il crollo delle dighe. L’allarme dell’ONU arriva mentre la gastroenterite si sta diffondendo tra le persone che hanno consumato acqua contaminata nell’area. Il rischio è che batteri collegati alla decomposizione dei corpi e agli inquinanti trascinati dall’inondazione possano causare delle epidemie. Sarebbe una tragedia nella tragedia, considerando che la situazione sanitaria in Libia è già delicata – e le ragioni sono da ricondurre a divisioni, corruzione e destabilizzazione. Inoltre, la piena potrebbe aver portato in superficie mine antiuomo inesplose lungo la valle del Wadi Derna, fino ad ora sepolte e accumulate appena sotto la superficie, dopo anni di conflitti interni.

I residenti della città devastata dall’alluvione stanno denunciando l’immobilismo delle autorità, paralizzate dalla divisione istituzionale tra est e ovest del paese. I libici stanno cercando di comprendere come sia stato possibile un disastro del genere. Prima che le dighe a monte della città cedessero, scatenando l’alluvione catastrofica, sembrava che sia le autorità che i residenti fossero a conoscenza del pericolo imminente. Fonti locali e dichiarazioni ufficiali indicano che la gestione della situazione è stata confusa e carente, sia nelle ore precedenti la tragedia che durante la notte di piogge torrenziali.

Il 14 settembre, il segretario generale dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha sottolineato che gran parte delle vittime avrebbero potuto essere evitate con avvisi tempestivi ed evacuazioni adeguate. Prima di raggiungere la Libia, il ciclone aveva già causato gravi danni in Turchia, Grecia e Bulgaria. Gli osservatori meteorologici internazionali avevano avvertito le autorità libiche del pericolo. Ma il problema è che le autorità libiche non agiscono a livello amministrativo alla stregua di ciò che noi definiamo “Stato”. A seguito dell’annuncio del coprifuoco il 9 settembre nelle città della Cirenaica, tra cui Bengasi, alcune misure sono state prese per affrontare le emergenze, ma la situazione si è concentrata soprattutto nella regione montuosa del Jabal al Akhdar, dove le piogge hanno continuato per diciassette ore.

Le chiamate di aiuto sono iniziate quella notte da città e villaggi sotto la montagna, dove le acque stavano rapidamente salendo, ma le autorità locali non hanno emesso l’ordine di evacuazione, anche se queste aree sono note per essere suscettibili di inondazioni. Successivamente, queste zone sono state dichiarate ad alto rischio, ma ormai era troppo tardi.

Ciò che emerge sottolinea ulteriormente la necessità di riformare profondamente il paese. Da parte degli Stati Uniti e di alcuni governi alleati, non solo occidentali ma anche regionali, si è aperta la strada per una potenziale soluzione: la creazione di un governo unitario realmente operativo – e in modo efficace – alternativo all’esecutivo di Tripoli e all’amministrazione della Cirenaica. Di fronte alla tragedia, le amministrazioni libiche rivali sembrano aver messo da parte le loro differenze almeno per ora, almeno pubblicamente, dopo le richieste di collaborare allo sforzo di aiuto. Lunedì scorso il Governo di Unità Nazionale con sede a Tripoli ha detto di aver iniziato a lavorare su un ponte temporaneo sul fiume che attraversa Derna. Un’intesa per la stabilizzazione sarebbe l’unico modo per non rendere vano il sacrificio di migliaia di vite innocenti.

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