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Teranga: il Senegal punta in alto

Dal gas all’arte passando per i vaccini: così Dakar pianifica la sua ascesa. Il caso del panafricanismo coniugato con il soft power fa ottenere al paese molto dalle ex potenze coloniali con il minimo sforzo.

Sgombriamo il campo da un equivoco: lo sport, soprattutto il calcio, è politica. Sarebbe irrealistico pretendere che questo legame si dissolva in base alle convenienze di un qualsiasi osservatore, visto che è anche questo nesso ad aumentare l’attaccamento del pubblico al gioco, specialmente in un’epoca dove il mondo del pallone comincia a fronteggiare i propri limiti narrativi e finanziari. Pensiamo ad esempio alle recenti speranze dell’Inghilterra calcistica, che puntava a festeggiare il suo primo trofeo internazionale dopo 55 anni, in casa e dopo la Brexit, sogno poi svanito grazie alla vittoria dei nostri azzurri. Questo preambolo è importante perché solo così si può cogliere il significato extracalcistico della vittoria della nazionale senegalese di calcio nella Coppa D’Africa. Nello specifico, la vittoria dei “Leoni del Teranga” al Paul Biya Stadium di Yaoundé mette in luce tre aspetti del Senegal e dei suoi rapporti con Africa e Europa nel prossimo futuro: a) la capacità di una nuova generazione di valorizzare il proprio retroterra culturale (sul campo e fuori) assorbendo dei retaggi stranieri e reinventandoli; b) la non così silenziosa ascesa del Senegal nel quadro geopolitico dell’Africa Occidentale; c) una nuova interpretazione del panafricanismo di cui bisognerà tenere conto nelle future relazioni con Dakar e più in generale con i paesi limitrofi.

Il primo punto è iscritto nel soprannome stesso della squadra vincitrice. Il termine teranga è di per sé intraducibile. Secondo una traduzione abbastanza forzosa dal wolof, teranga vuol dire “ospitalità”, sebbene sia un concetto più vicino ad uno stile di vita che a un comportamento tangibile. In questo senso, l’ospitalità del teranga è più vicina alla tradizione mediterranea che non a quella continentale europea dell’accoglienza. Secondo il teranga, l’ospite deve essere inglobato completamente all’interno della comunità non solo condividendo il cibo o la casa, ma diventando membro attivo delle decisioni del gruppo. In questo senso, il teranga è un concetto puramente collettivo, trasportato nel calcio senegalese da un francese del nord convertito all’Islam, Bruno Abdelkrim Metsu, allenatore alla guida della spedizione del 2002 in Corea e Giappone dove il Senegal si classificò tra le migliori 8 squadre della competizione, dopo aver battuto i campioni in carica della Francia nel match d’apertura. L’idea del teranga è in primo luogo visibile sul piano sportivo, con la squadra di Aliou Cissé che si pone all’intersezione tra il calcio fisico della Premier League e un gusto spagnoleggiante per gli scambi corti e il gioco in velocità. Ma soprattutto anche per l’accento posto sul valore del gruppo rispetto ai singoli, uno dei leitmotiv che è stato più evidente nel corso della finale, con i Faraoni egiziani spesso alla ricerca del guizzo del loro numero 10 Salah, contrapposti a un gioco corale del Senegal. Il teranga però è un elemento che contraddistingue i senegalesi prima ancora della loro nazionale: sembra essere stata proprio questa interpretazione del vivere collettivo ad aver contribuito alla ricomposizione del conflitto in Casamance (regione da cui paradossalmente proviene un buon numero dei convocati per la Coppa D’Africa), oggi diventato sporadico e caratterizzato da un livello di intensità pressoché nullo. Ma anche all’armonizzazione della componente cristiana della popolazione con quella musulmana, favorendo uno dei principali esempi di convivenza tra le due fedi nel continente.

Fortemente implementato sul campo di calcio, il teranga è diventato ad oggi il motore della collettività in Senegal. Fino alla vittoria della Coppa d’Africa il paese poteva essere considerato, in senso geopolitico prim’ancora che calcistico, come il grande incompiuto d’Africa. Un aspetto perfettamente evidente sul piano economico con un modello di sviluppo agricolo basato su arachidi e banane che gli impediva di ottenere una piena rilevanza continentale. Il grosso del terziario restava focalizzato sul settore turistico. La scoperta di giacimenti di gas e petrolio al largo delle coste senegalesi ha sicuramente garantito l’opportunità di agganciare il trend di sviluppo legato al settore dell’energia che caratterizza i paesi costieri dell’Africa Occidentale (Mauritania e Costa d’Avorio in primis), ma a differenza di quanto si potrebbe pensare, il Senegal non punta a diventare un rentier state sul modello delle monarchie del Golfo. In un quadrante d’Africa più noto per le turbolenze nel Sahel e la proliferazione dell’instabilità geopolitica, Dakar vuole usare l’energia come strumento per una crescita duratura. Insomma, gas e petrolio come mezzi e non come fini. I dati parlano chiaro: recentemente, il peggior anno per il PIL senegalese è stato il 2020, quando il COVID-19 ha ridotto la crescita all’1,5%, calo recuperato subito con un rimbalzo del 6% nel 2021. Il propagarsi della pandemia ha paradossalmente contribuito a sottolineare le ambizioni di Dakar che ad ottobre dello scorso anno ha firmato un accordo con Pfizer BioNTech per la costruzione della prima fabbrica di vaccini a MRNA nella regione, ponendo il Senegal in controtendenza rispetto ad altre economie nel continente che hanno invece privilegiato partnership con Cina e Russia. Con una crescita del 12% nel 2020 delle immatricolazioni universitarie il Senegal punta a vantare una delle gioventù più istruite dell’Africa Occidentale nei prossimi anni. Infine, il trend che rende il Senegal come uno dei mercati emergenti più interessanti del continente è confermato dal recente progetto per la costruzione del nuovo snodo portuale di Ndayane, finanziato con 1,13 miliardi di dollari dall’emiratina DP World, dovrebbe diventare uno dei principali snodi logistici dell’area per le rotte regionali e transatlantiche.

Certo, la traslazione veloce da economia agricola a energetico-commerciale non manca di punti critici. Nel breve termine le disparità economiche tra agglomerati urbani e rurali, la difficoltà di coniugare industria energetica e transizione ecologica, il digital divide, sono tutte questioni che restano aperte sul tavolo delle autorità di Dakar. Quest’ultime, però, hanno per la prima volta nella loro storia i mezzi per affrontarle. Dietro la vittoria dei Leoni del Teranga, e dietro l’ascesa regionale del Senegal, vi è più che una valorizzazione del proprio retroterra culturale e una felice congiuntura tra possibilità offerte dal settore energetico in ascesa e crescita galoppante. L’ascesa del Senegal è legata anche a una reinterpretazione del panafricanismo in chiave strategico dottrinale, progredita negli ultimi 20 anni, i cui segni si riscontrano anche nella produzione che ha reso recentemente Dakar una delle capitali dell’arte in Africa Occidentale, parte di un’industria destinata a valere 18 miliardi di dollari nel 2023.

Sul piano strettamente geopolitico, proprio come i Leoni del Teranga, la leadership di Dakar ha puntato a riequilibrare i rapporti di forza con le ex potenze coloniali e i giganti del continente utilizzando i suoi strumenti di soft power, e inserendosi in processi e consessi multilaterali piuttosto che in quelli bilaterali. Un esempio di questa strategia è quello della restituzione della spada dell’eroe nazionale Omar Tall (leader della resistenza antifrancese tra il 1857 e il 1859), riconsegnata al presidente Macky Sall dal primo ministro francese Philippe nel 2019, nell’ambito di un processo di ricalibratura delle relazioni tra Parigi e le sue ex colonie. Dal punto di vista del Senegal, l’avvenimento ha maggior rilevanza se si considera come, inserendosi in questa dinamica, Dakar stia progressivamente ottenendo la restituzione di più di 90 mila artefatti presenti nei musei dell’ex potenza colonizzatrice. Un risultato tangibile di come il Senegal riesca a centrare alcuni obiettivi senza giungere a confronti più aspri, come spesso avvenuto nel caso delle ex colonie francesi del Maghreb. Allo stesso modo, il paese ha saputo inserirsi nella dinamica della guerra in Yemen, partecipando nel 2015 con un contingente ridotto, ma che ha funzionato da chiave di volta per saldare le relazioni con l’Arabia Saudita. In questo contesto, ci sono ampie aspettative per la capacità di Dakar di influire nei prossimi mesi sulle dinamiche continentali specie ora che Macky Sall è stato eletto presidente dell’Unione Africana. Presidenza che è cominciata proprio nel giorno della vittoria della Coppa d’Africa. In questo contesto, il modello senegalese della multilateralità dovrà fronteggiare prove importanti come la campagna di vaccinazione che ancora procede a rilento, la lotta al cambiamento climatico e l’inasprirsi della crisi nel Sahel. Dopo anni di successi sul piano interno, il teranga è ormai giunto alla prova continentale e, proprio come per la Coppa d’Africa, non sono ammessi errori.

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