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Tra propaganda e strategia, così la Cina usa la guerra di Gaza

Pechino ha interessi nella stabilizzazione del Medio Oriente, ma vuole anche muoversi per far pesare sull’Occidente le responsabilità della crisi. L’analisi di Emanuele Rossi

La Cina sta strategicamente sfruttando la crisi mediorientale collegata alla guerra nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas per rafforzare la propria influenza regionale. Una mossa che fa parte del più ampio programma di Pechino di sfidare e ridurre il dominio di Stati Uniti ed Europa sulla scena internazionale e modificare l’ordine mondiale attraverso un modello di governance offerto dalle iniziative globali del leader Xi Jinping.

Pechino non è interessata far valere definitivamente la sua voce su ciò che accade in Medio Oriente, perché percepisce i propri limiti (legati anche alla eventualità di aumentare impegni e coinvolgimenti), ma fiuta anche le opportunità. Pechino infatti non vuole in alcun modo intervenire militarmente, anche come garante securitario, e non vuole offrire una sponda politica a meno che non sia certa del successo (come nel caso della riapertura delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran).

È un atteggiamento che apparentemente va contro i propri interessi diretti, per esempio quello legato alle risorse energetiche della regione di cui è il principale cliente; o la protezione delle rotte commerciali che collegano Europa e Asia tramite il Mar Rosso — dove gli attacchi laterali degli Houthi yemeniti, entrati in guerra contro Israele per necessità e interessi, stanno destabilizzando la sicurezza marittima di un tratto di mare in cui passa il 12% del commercio mondiale, il 10% del petrolio e l’8% di Gnl.

Per quanto complessa, la posizione della Cina è in linea con la sua ideologia fondante e la sua politica estera, guidata dall'obiettivo di sfidare l'egemonia percepita degli Stati Uniti nella regione e nell'ordine globale. Inoltre, Pechino, mira a creare una frattura tra gli Stati Uniti e i suoi alleati arabi di lunga data. Come gli omologhi di Mosca, i funzionari cinesi accusano Washington di mantenere un "doppio standard" nel non criticare gli alleati rispetto agli avversari. Per esempio, accusano gli Stati Uniti di essere responsabili delle destabilizzazioni in atto, come quella nel Mar Rosso. Nel farlo, in modo simile in cui incolpa Washington di concedere a Israele l’uccisione di civili nella Striscia, Pechino incassa parziale consenso da una serie di Paesi che soffrono gli effetti della guerra. Molti di questi appartengono al cosiddetto Global South, e la narrazione cinese contribuisce ad allargare le distanze tra esso e l’Occidente. In linea con questo tentativo, infatti, nelle prime settimane della crisi, la Cina ha mandato il suo inviato speciale per il Medio Oriente, Zhai Jun, per avviare colloqui volti a discutere un cessate il fuoco immediato e valutare potenziali negoziati di pace. Zhai ha incontrato funzionari di alto livello in Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Arabia Saudita. Ma è stato un "tour di ascolto", che mette in mostra la partecipazione della Cina senza una leva sostanziale di risoluzione. L'itinerario di Zhai ha omesso di fare tappa in luoghi chiave per la crisi, come Israele, i territori controllati dalla Palestina o l'Iran, e non ha incontrato funzionari di Hamas. Tuttavia, dopo il suo viaggio, il ministro degli Esteri dell'Autorità palestinese si è recato a Pechino per un colloquio e il capo del dipartimento per gli Affari dell'Asia occidentale e del Nord Africa del ministero degli Esteri cinese si è recato in Iran per discutere del conflitto, seguito più recentemente dal capo dell’International Liaison Department del Partito Comunista Cinese, Lui Jianchao.

Il 20 novembre, il Ministro degli Esteri Wang Yi ha accolto rappresentanti dell'Arabia Saudita, Giordania, Egitto, Autorità Palestinese e Indonesia, insieme al capo dell'Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), per una visita di due giorni a Pechino, segnando l'inizio di un tour pianificato in diverse capitali mondiali (che però ancora non si è concretizzato). Nell'apertura dei colloqui, Wang ha dichiarato: "La comunità internazionale deve agire con urgenza, adottando misure efficaci per evitare che questa tragedia si diffonda. La Cina si schiera fermamente a favore della giustizia e dell'equità in questo conflitto", ribadendo l'appello per un immediato cessate il fuoco. Durante i colloqui, Wang ha esortato Israele a interrompere “la punizione collettiva” su Gaza e a creare un corridoio umanitario per prevenire una crisi umanitaria più grave.

Il 21 novembre, il presidente cinese Xi Jinping ha presentato un piano in sei punti per risolvere la crisi durante un vertice virtuale dei Paesi BRICS, proponendo una "soluzione a due Stati" per la disputa israelo-palestinese in linea con la posizione di Washington. In modo analogo a quanto fatto riguardo all’Ucraina a febbraio, si tratta di elementi generali senza soluzioni specifiche e impegni. Molta spettacolarizzazione e propaganda, ma poca sostanza per fermare realmente le armi.

Pochi giorni prima, il 15 novembre, Xi Jinping aveva incontrato Joe Biden a San Francisco. I funzionari statunitensi ritenevano che la Cina potesse prendere in considerazione la possibilità di influenzare l'Iran per evitare ripercussioni economiche globali dalla crisi mediorientale. L'équipe del presidente Xi ha informato il presidente Biden di aver avviato discussioni con l'Iran sulla questione, anche se non esistevano indicazioni pubbliche sull'impegno iraniano per la de-escalation.

Fermo restando che la Cina ha leve importanti sull’Iran di carattere economico-commerciale (acquistando petrolio iraniano altrimenti sanzionato), è possibile che Teheran abbia sulla crisi un’agenda più strutturata, e non accetti consigli di Pechino. È altrettanto probabile che a sua volta Pechino si astenga dall'esercitare tutta la sua influenza per evitare di forzare le relazioni, di incidere su legami bilaterali più ampi e per continuare la facilitazione del caos in chiave anti-occidentale.

Pechino, che dipende da una fornitura stabile di petrolio dall'Iran e dal libero flusso di commercio attraverso punti strategici come lo stretto di Bab el-Mandeb, si trova di fronte a un dilemma: l'Iran e i suoi alleati, in particolare gli Houthi, minacciano il commercio regionale, ma le navi cinesi nelle vicinanze, apparentemente in missione antipirateria nel Mar Arabico, non hanno mai risposto alle richieste di aiuto dei mezzi commerciali colpiti dalle aggressioni.

Tra qualche mese, imbarcazioni cinesi e iraniane, terranno esercitazioni congiunte nel Golfo Persico, e forse quella diventerà occasione per un chiarimento e un approfondimento del ruolo cinese nella regione. Per ora, la partita di Washington si gioca nel dimostrare che Pechino non è una potenza responsabile in grado di farsi carico di certi dossier; viceversa la Cina insiste che gli Stati Uniti, con i loro interessi, sono responsabili di ciò che accade ed evita coinvolgimenti.

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