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L’Italia guarda alla Tunisia e cerca una soluzione alla crisi

L’Italia conferma il proprio sostegno al paese dei gelsomini, sempre più in bilico sotto il profilo economico e oggetto delle mire politiche dei competitor dell’Occidente. L’analisi di Francesco Meriano

Prosegue a ritmi sempre più serrati la partita per la Tunisia. Le interlocuzioni internazionali si fanno tanto più urgenti quanto alta è la posta in gioco: scongiurare il tracollo politico-economico del paese tramite un pacchetto di assistenza finanziaria UE e il prestito da 1,9 miliardi di dollari al centro di una sofferta trattativa tra il Fondo Monetario Internazionale e palazzo Cartagine. Entrambe le offerte restano ancorate alla ristrutturazione del comparto economico tunisino attraverso la privatizzazione di alcune imprese statali, il taglio dei sussidi pubblici e lo snellimento del sovradimensionato servizio civile – richieste come garanzie dal Fondo. Misure che il presidente Kais Saied ha ripetutamente bollato come inaccettabili “diktat stranieri” e che, se implementate, potrebbero costargli consensi fondamentali nel sempre più acceso confronto interno con le opposizioni del Fronte di Salvezza Nazionale. Uno stallo che si trascina dall’estate 2022, mentre cresce il debito pubblico e le riserve valutarie raggiungono i livelli di guardia, acuendo un malcontento civile che minaccia la stabilità stessa del paese dei gelsomini.

Un nodo gordiano nel cui scioglimento l’Italia riveste un ruolo di primo piano. Ne è esempio la visita lampo del presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni a Tunisi, organizzata nell’arco di sole 48 ore la scorsa settimana. A conclusione dei due colloqui tenuti rispettivamente con Saied e con l’omologa Najla Bouden, Meloni ha confermato il sostegno “a 360°” di Roma al risanamento del bilancio tunisino e la disponibilità a profondere “ogni sforzo per l’accordo con il FMI”. Un obiettivo affrontato anche negli incontri di Meloni con il presidente francese Emmanuel Macron e la direttrice del Fondo, Kristalina Georgieva, a margine del G7 di Hiroshima, in maggio.

Cosa più importante, l’incontro ha preparato il terreno per una più ampia mediazione sul lato UE, concretizzatasi in questi giorni nel vertice di Tunisi tra Saied, Meloni (alla seconda visita tunisina nel giro di due settimane), la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier olandese Mark Rutte. L’Europa – ha dichiarato Von der Leyen nel corso di una conferenza stampa congiunta a chiusura del summit – sarebbe pronta a mobilitare aiuti per un valore di 900 milioni di euro previo il raggiungimento dell’accordo con il Fondo, con il quale Roma e Bruxelles potrebbero svolgere un’efficace opera di mediazione.

Si tratta di aperture che echeggiano l’invito alla conciliazione – e una non troppo velata critica alle posizioni del Fondo Monetario – formulati da Meloni nel corso del vertice in Giappone. «Ma siamo sicuri che questa rigidità sia la strada migliore? Se questo governo va a casa noi abbiamo presente quali possano essere le alternative? Credo che l’approccio debba essere pragmatico, perché altrimenti noi rischiamo di peggiorare situazioni che sono già compromesse.» Ammorbidire FMI e Stati Uniti – principali shareholders dell’organizzazione – rientra negli obiettivi chiave della missione a Washington intrapresa in questi giorni dal titolare della Farnesina, Antonio Tajani: in agenda colloqui bilaterali con Georgieva e con il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken.

Impegno diplomatico che sottolinea quanto avrebbe da perdere l’Italia nell’eventualità di un collasso tunisino. Non solo perché si troverebbe in prima linea di fronte all’afflusso di migranti irregolari, in gran parte provenienti da Sahel e Africa subsahariana, che dalle coste tunisine puntano a raggiungere l’Europa e i cui numeri hanno raggiunto livelli record (i dati del Viminale evidenziano l’arrivo di oltre 15.000 persone da gennaio a fine marzo 2023: cifre destinate ad aumentare con il recente divampare del conflitto civile in Sudan).

Altrettanto cruciale il dossier energetico. Il default di Tunisi minaccerebbe il flusso degli approvvigionamenti di gas contrattati con l’Algeria lo scorso anno e incanalati verso Roma tramite il gasdotto Transmed, il cui tratto di raccordo al Mediterraneo e alla Sicilia attraversa per circa 370 chilometri il territorio tunisino. C’è poi in gioco il progetto di elettrodotto El Med curato da Terna, destinato a collegare Capo Bon alla Sicilia per 230 chilometri e 600 MW di capacità, finanziato dalla Commissione europea con 307 milioni di euro e con il potenziale di rendere l’Italia uno snodo centrale per la ridistribuzione di energia elettrica nel Mediterraneo. Nonché i piani per la realizzazione del network sottomarino in fibra ottica Medusa, per il quale la Banca di investimento europea ha erogato 40 milioni di euro e che dovrebbe prevedere un punto di raccordo tra Biserta e Mazara del Vallo.

Un terzo fattore critico è, inoltre, legato alla proliferazione della criminalità transfrontaliera e del terrorismo di matrice islamista. Fenomeni esacerbati dal processo di disgregazione dello stato libico e dal dissesto politico-climatico di Sahel e Corno d’Africa, che troverebbero nella Tunisia un’ideale rampa di lancio per propagarsi nel Maghreb e verso il nostro paese. Complice anche l’opera di destabilizzazione strumentale portata avanti in queste regioni dalle forze paramilitari russe del gruppo Wagner.

Vale la pena sottolineare, a questo proposito, che sulla Tunisia si incrociano dinamiche e interessi che trascendono i confini regionali e si inseriscono, a buon diritto, nella partita per gli equilibri globali tra Occidente e Russia. La destabilizzazione dello scacchiere nordafricano – “cordone sanitario” già sfilacciato tra l’Europa meridionale e le forze centrifughe che minacciano i paesi subsahariani – aprirebbe un nuovo fronte per un’Europa già minacciata alle sue frontiere orientali: un successo per la strategia asimmetrica del Cremlino, che nel conflitto ucraino trova soltanto la sua manifestazione più diretta.

Se la Russia si potrebbe rallegrare di una Tunisia vicina al baratro, altri valutano le opportunità di giocare d’anticipo. Significativo, a questo proposito, che nelle scorse settimane la Cina abbia velatamente suggerito la possibilità di finanziare Tunisi in alternativa al Fondo Monetario, mentre palazzo Cartagine ha espresso a inizio aprile la volontà – analogamente a quanto fatto dall’Algeria – di entrare nel novero delle economie emergenti BRICS e di aderire – come già il Marocco – alla Belt and Road Initiative lanciata da Pechino.

Un potenziale scacco per l’Occidente che gli ultimi sviluppi sembrano, per il momento, allontanare. Le prime, caute aperture di Saied – che in un comunicato stampa ha rilevato la necessità di mantenere le “relazioni strategiche” con i paesi della sponda nord del Mare Nostrum – seguono l’invito alla cautela dell’ambasciatore cinese a Tunisi, Wan Li, che ha definito “difficile” prescindere dall’apporto del FMI. Marcia indietro dovuta, probabilmente, alle battute d’arresto subite dall’economia cinese negli ultimi mesi: impegnato nella competizione con gli Stati Uniti sul fronte del Pacifico e alle prese con gli aftershocks della crisi COVID-19, il Regno di Mezzo raziona le risorse e sembra voler indicare che la Tunisia, al momento, non riveste un ruolo prioritario nella propria politica estera.

Ma l’ouverture cinese segnala, in ogni caso, che la partita è ormai spiccatamente multilaterale e che il campo di gioco si allarga ben oltre i confini del bacino mediterraneo. Con questo spirito Meloni ha rilanciato, al termine della visita a Tunisi, l’idea già ventilata dallo stesso Saied di una conferenza internazionale che affronti il nesso migrazione-sviluppo alla luce dell’attuale crisi. Il vertice – suggerisce il premier italiano – potrebbe tenersi a Roma, nel cuore del Mediterraneo, e coinvolgere Europa, Nordafrica, Sahel e Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Il dossier tunisino, a ben guardare, rappresenta un potenziale terreno di ingaggio anche per le monarchie del Golfo e in particolare per Arabia Saudita ed Emirati, candidati al ruolo di front runners e unificatori del mondo arabo: tanto Abu Dhabi, già impegnata in Libia, quanto Riad – protagonista dell’ultimo vertice della Lega araba, che ha visto la Siria assadista riaccolta tra i membri dell’organizzazione – hanno dimostrato apprezzamento per Saied e per il programma di contenimento delle correnti islamiste da questi inaugurato.

Un grand jeu mediterraneo che l’Italia – e l’Europa – hanno tutto l’interesse a vincere. Ma non sono pochi gli ostacoli che rischiano di arenare (ancora una volta) le trattative. A partire dalla situazione interna del paese dei gelsomini, dove Saied – che nel 2021 dissolse manu militari il parlamento tunisino – ha inaugurato una discussa svolta autoritaria, promuovendo riforme volte a rafforzare la discrezionalità presidenziale e avviando una pervasiva campagna di arresti a sfondo politico. Questione delicata se a finanziare la stabilità di un regime traballante sono le democrazie europee e quella statunitense, il cui Congresso ha già espresso riserve circa l’opportunità di erogare ulteriori aiuti a beneficio di Tunisi e di favorire i negoziati tra Saied e il FMI. Mentre Roma e Bruxelles – per le quali l’impatto della bancarotta tunisina sarebbe ben più diretto – sono spinte a puntare su una realpolitik che profila una netta divergenza, in assenza di accordo, dall’intransigenza del Fondo Monetario e dei suoi finanziatori di Washington.

Il vertice a quattro di questi giorni costituisce dunque un primo passo in avanti – e una preziosa vetrina per il rilancio dell’attivismo strategico italiano nel Mediterraneo. Ma sottende anche una pluralità di interessi, convergenti e contrastanti, a partire dai quali sarà necessario creare un’agenda politica il più possibile omogenea, che unisca attori diversi lungo l’arco del bacino mediterraneo e sulla sponda opposta dell’Atlantico. Un progetto ambizioso, da realizzare entro un margine temporale sempre più ristretto.

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