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Tutti i rischi della crisi irachena

L’Iraq continua a trovarsi in una grave situazione di stallo istituzionale in cui potrebbero aumentare le tensioni e i rischi di una crisi politica preoccupante per tutta la regione. Il punto di Daniele Ruvinetti

I seguaci del leader sciita Moqtada Sadr hanno assaltato il palazzo presidenziale di Baghdad e scatenato una nuova ondata di caos che ha portato l’esercito a proclamare un coprifuoco in tutto il Paese, le forze Nato a intervenire per monitorare la situazione di sicurezza nella Green Zone e l’Onu a lanciare un appello alla calma. A scatenare la protesta è stato l’annuncio, provocatorio, di al Sadr che ha detto di volersi ritirare dalla vita politica dopo che per due decenni ne ha segnato le dinamiche. I suoi supporter, un gruppo nutrito che da tempo gli assicura il consenso, hanno reagito d’impeto dimostrando la delicatezza dei disequilibri interni. In seguito ad un appello dello stesso leader sciita, i manifestanti si sono poi ritirati.

In Iraq, infatti, dopo 10 mesi di stallo, trascorsi nell'incapacità di formare un governo, anche l'ultimo vertice del 17 agosto si era concluso con un nulla di fatto: il paese non riesce a implementare in senso positivo i risultati delle ultime elezioni.

Le forze politiche, invitate dal primo ministro uscente Mustapha al Khadimi per quello che aveva definito il "dialogo nazionale", non hanno trovato nessuna forma di soluzione politica. Un insuccesso dovuto anche all'assenza al tavolo negoziale del movimento politico guidato dal leader sciita Moqtada al Sadr, che ha in mano la maggioranza relativa e che al momento rimane su una posizione attendista.

Al Sadr aveva bloccato il voto di un nuovo presidente attraverso un blitz popolare all'interno del parlamento, di cui attualmente non riconosce legittimità dato che ha ritirato i suoi 73 deputati. Vorrebbe lo scioglimento dell'assemblea, ma la corte federale irachena lo ha impedito. In risposta a questo, seguendo quella che definisce una "rivoluzione democratica", sta organizzando un referendum popolare su cui dichiara di portare al voto dieci milioni di iracheni che chiederanno la non-legittimità parlamentare.

Dopo l'ultimo fallimento delle riunioni per trovare una possibile soluzione alla crisi istituzionale, il ministro delle Finanze, Ali Allawi, si è dimesso dichiarando l'assenza di una base costituzionale che giustifichi la situazione in corso, e parlando di "illegalità". Allawi ha chiesto nuove elezioni, e le sue posizioni iniziano a incontrare alcuni sentimenti popolari.

L'ostruzionismo politico sta passando alle azioni pratiche, con i supporter dei vari gruppi impegnati in manifestazioni che assomigliano sempre più a prove di forza. Il rischio è che la situazione a Baghdad diventi sempre più infiammabile e che questo possa portare a una collisione tra le varie forze politiche e i gruppi armati collegati.

Questo potrebbe anche muovere coinvolgimenti dall'esterno, con il rischio di trasformare la crisi istituzionale irachena in un potenziale hotspot di destabilizzazione regionale. Sul dossier sono infatti coinvolti player mediorientali di primo piano, come Iran e Arabia Saudita.

Baghdad, grazie a un'abile mossa diplomatica dell'ancora premier Khadimi, sta ospitando i tentativi di dialogo tra le due potenze geopolitiche del mondo islamico, ma allo stesso tempo sia Riad che, soprattutto, Teheran hanno capacità di influenzare dall'interno il quadro iracheno.

Mentre i sauditi fanno affidamento sulla possibilità di investimenti per risanare le casse depresse del Paese, i Pasdaran hanno collegamenti molto stretti con alcuni dei principali partiti (e milizie collegate) del panorama politico in Iraq.

Questi gruppi, riuniti sotto il cosiddetto “Quadro di coordinamento sciita” (coalizione che riunisce i partiti iracheni filo-iraniani formata all’indomani delle elezioni legislative del 10 ottobre 2021,) sono quelli che intendono creare un governo senza al Sadr, che ha ottenuto buona parte dei suoi successi attraverso una campagna in cui cavalcava un desiderio popolare di sovranità davanti alle sempre maggiori ingerenze esterne.

Anche a questo si potrebbe legare la volontà saudita di rafforzare il proprio ruolo: la visita a Gedda di Ammar al Hakim, leader del partito sciita filo-iraniano iracheno Al Hikma, e il suo incontro con l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman, rappresenta un passaggio in questo senso. Il Quadro di coordinamento sciita cerca di accreditarsi tra i Paesi arabi, rassicurandoli sulla propria autonomia di azione riguardo al rivale regionale, l'Iran; ma Riad ha già sottolineato che pur mantenendo la porta aperta al confronto con ogni formazione irachena, non intende farsi coinvolgere nelle questioni interne del paese.

Viste le relazioni del Regno con Sadr, si potrebbe leggere in queste mosse anche un tentativo di accomodamento, intercessione e mediazione per evitare lo scontro. Comprensibile come fonti irachene dicano al quotidiano panarabo di proprietà saudita “Asharq al Awsat” che il viaggio di Al Hakim è “stato di grande importanza per quanto riguarda le relazioni bilaterali tra Baghdad, Riad e in generale il mondo arabo", letto come segnale positivo per trovare una soluzione allo stallo.

Di sicuro le tensioni crescenti nel paese, qualora la crisi attuale non dovesse avere presto una soluzione politica, potrebbero nel tempo avere un impatto rilevante non solo sulla stabilità interna del fragile equilibrio nazionale, ma anche sul resto della regione del Levante.

Non è un caso se l'Iran ha subito reagito chiudendo i confini come forma di protezione e sicurezza per i propri cittadini, consapevole che durante le proteste i sadristi hanno bruciato bandiere iraniane e poster di figure come Qassem Soleimani (il defunto leader delle Quds Force, l'unità per le operazioni esterne dei Pasdaran, ideatore del piano di diffusione delle milizie sciite regionali).

Anche la Turchia ha esortato i suoi cittadini a non recarsi a Baghdad e ha chiesto un "dialogo inclusivo" per risolvere la crisi in corso. "La Turchia è preoccupata per gli sviluppi nel fraterno Iraq", ha dichiarato il Ministero degli Esteri turco in un comunicato, augurandosi la rapida soluzione "pacifica" degli attuali scontri. Ankara è su una linea attendista, evita sbilanciamenti e segue le richieste di distensione uscite anche da Washington e Bruxelles.

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