Approfondimenti

Tutti i rischi della Recessione Godot per i paesi del Sud del Mediterraneo

L’economia mondiale non è in recessione ma la congiuntura attuale mette sotto pressione la sponda sud del Mediterraneo. Inflazione, debito e disoccupazione agitano le piazze. Come Russia e Cina capitalizzano sull’inazione di Europa, USA e organismi multilaterali. Il punto di Luciano Pollichieni e Giovanni Caprara.


Introduzione

Partiamo dalle buone notizie: l’economia globale non è in recessione. Nonostante i timori paventati da diversi osservatori alla fine dello scorso anno, la crescita economica mondiale ha solo rallentato. Le previsioni pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale nell’ultimo World Economic Outlook stimano a 2,8% la crescita dell’economia mondiale nel secondo quadrimestre. Una perdita dello 0,6 % rispetto al 2022, ma ben lontana dagli scenari catastrofici preventivati. Smentita di conseguenza anche l’ipotesi di stagflazione, con la componente della crescita economica che rimane consistente sebbene a fronte di un’inflazione su base annua ancora elevata (7% secondo le previsioni, con un calo dell’1,7% rispetto all’anno precedente). Anche le stime della World Bank sono in linea con le previsioni del Fondo. Dopo aver previsto una crescita per il 2023 dell’1,7%, la Banca Mondiale ha rivisto le proprie stime al termine del primo quadrimestre con un livello al di sopra del 2%. Anche la Commissione Europea conferma le stime di crescita al 2% dopo le iniziali previsioni di gennaio che prevedevano una crescita dello 0,8% per l’UE. Diverse le possibili spiegazioni per questa mancata recessione, che è stata ribattezzata come “recessione Godot”. L’inverno mite, ad esempio, ha ridotto i consumi di gas e il prezzo è rimasto contenuto nonostante i tagli alla produzione. Più in generale, la crescita deriva dal fatto che i mercati sembrano riusciti a adattarsi agli shock derivanti dalla guerra in Ucraina e che le problematiche legate alle catene del valore, emerse durante la crisi del COVID, sono state superate almeno parzialmente.

Diverso il discorso per i mercati finanziari che risultano quelli maggiormente colpiti dalla configurazione economica attuale, specialmente i soggetti che hanno adottato politiche coraggiose nella gestione del rischio (SVB docet, Credit Suisse quoque). I casi dei due istituti di credito sono sostanzialmente diversi: SVB era una banca regionale americana, focalizzata sul servizio a start-up e a imprenditori del settore informatico, che è fallita in pochi giorni. Credit Suisse è, invece, una banca di importanza sistemica e una spina dorsale del sistema finanziario svizzero; un istituto appartenente all’ “élite bancaria globale”, come afferma il Financial Times, che era in crisi da anni, prima di essere stato assorbito da UBS. È, tuttavia, possibile riscontrare un elemento comune ai casi dei due istituti, ovvero una combinazione di cultura bancaria dannosa e una cattiva gestione del rischio strategico.

Il fallimento di questi istituti bancari sembra, però, aver avuto conseguenze circoscritte senza aver intaccato i principali operatori del mercato creando un effetto contagio simile a quello della crisi del 2008. Insomma, la recessione non c’è, il sistema finanziario regge, pericolo scampato? Non esattamente.

Sebbene l’economia mondiale non sia diretta verso la recessione, l’attuale quadro economico-finanziario presenta diverse problematiche per i paesi del Mediterraneo Allargato e soprattutto per le economie africane, con potenziali conseguenze che difficilmente resteranno chiuse negli Excel dei tecnici degli operatori finanziari. A fronte di una crescita economica diffusa, infatti, le economie della sponda sud del Mediterraneo dovranno far fronte ad un aumento pesante dell’inflazione, correlato ad una tendenza analoga per i propri debiti pubblici, e da un aumento della disoccupazione destinato a colpire prevalentemente la popolazione giovane. Sul piano geopolitico questo trittico si traduce in un fattore univoco: rischio di maggiore instabilità. Non è quindi un caso se negli ultimi mesi Fondo Monetario e Banca Mondiale (così come le diplomazie di Cina e Stati Uniti) sono attivamente impegnate nel creare una rete di sicurezza attorno alle economie dell’area. Per capire la natura geopolitica di questo scontro bisogna però partire dall’osservazione dei fondamentali macroeconomici del continente.

L’inflazione e il debito

La regione del Nord Africa si trova in una congiuntura economica in netto peggioramento. In primo luogo, deve far fronte a un’inflazione in forte crescita, figlia di diversi fattori. La disruption delle catene di fornitura globali, la scarsità di lavoratori e la conseguente difficoltà nel trasporto di merci ha comportato un primo aumento generalizzato dei prezzi dei beni già durante la pandemia nel 2020. I problemi di varia natura che hanno caratterizzato le catene di approvvigionamento energetiche, alimentari e dei metalli, sono state interrotte dall’avvento del Covid-19. Come ha affermato Daniel Yergin, “le supply chain non possono più essere date per scontate. Le aziende stanno ora includendo considerazioni su resilienza e flessibilità oltre a quelle sui costi e sulla tempestività delle forniture. Di certo, la tendenza generale alla globalizzazione continuerà. Ma questo sistema economico globale, ora alquanto frammentato, sarà ulteriormente messo in discussione dal corso della guerra in Ucraina, dalle tensioni geopolitiche tra gli Stati Uniti e la Cina e dall’eventualità di un rallentamento dell’economia sul piano globale”.

Le capitali nordafricane Algeri, Tunisi e Il Cairo, e le città portuali di Biserta e Port Said, costituiscono gli snodi logistici ed economici della regione. Il commercio lungo questa direttrice si rivolge all’asse Nord-Sud e collega il continente ai mercati globali. Il fattore che non ha risparmiato l’area in oggetto dalle tendenze generalizzate è la mancanza di vie commerciali alternative che ha causato difficoltà negli approvvigionamenti. Analogamente a quanto verificatosi nei paesi del Nord Africa, la spirale inflazionistica ha evidenziato le crepe all’interno del sistema di sviluppo dei “leoni”. Il caso più evidente è quello del Kenya, una delle economie più dinamiche del Corno d’Africa, che si è scoperta troppo dipendente dalle importazioni sia per quanto concerne il cibo che le materie prime. Anche in quest’ottica va letta la guerra d’influenza tra Russia e Ucraina per attirare il supporto degli stati africani, che si combatte a colpi di donazioni di grano e commodity.

La guerra in Ucraina, infatti, ha aggravato questa tendenza: in una prima fase, il prezzo del petrolio ha subito un aumento sostanziale, toccando due volte i 120 dollari al barile nell’arco del 2022. Successivamente però, sì è stabilizzato per via dei consumi contenuti e dell’elevata produzione da parte dei paesi non appartenenti al cartello OPEC+. Ad esempio, lo scorso febbraio gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler rilasciare 26 milioni di barili di petrolio dalle riserve strategiche, una decisione analoga a quella già adottata nell’ottobre del 2022 in seguito al taglio della produzione di 2 milioni di barili da parte dei paesi produttori. Nel complesso, è da notare come i prezzi energetici - e di molte materie prime - abbiano riscontrato un’alta volatilità nell’ultimo anno, in linea con la congiuntura economica attuale. Tale condizione ha avuto conseguenze diverse a seconda degli stati presi in esame: nei paesi produttori di petrolio, come l’Algeria, gli aumenti di prezzo hanno garantito un’opportunità per ammortizzare i costi di altri beni, come quelli alimentari, garantendo una stabilità politica oltre che finanziaria rispetto ad altri paesi della regione. D’altra parte, nei paesi che sono importatori netti di greggio, come l’Egitto, le variazioni dei prezzi delle materie energetiche hanno causato importanti ricadute sulla bilancia dei pagamenti. Diametralmente opposto, invece, l’effetto avuto dai rincari energetici in Africa subsahariana, dove la spirale inflazionistica dovrebbe assestarsi intorno al 12,5% secondo le ultime stime. Particolarmente rilevante è stato l’aumento del prezzo della benzina che ha messo a dura prova i debiti pubblici africani dal momento che, sebbene non siano particolarmente elevati, devono fronteggiare il duplice problema dei sussidi molto alti e dei tassi d’interesse aumentati. Rispetto al prezzo delle materie energetiche le economie subsahariane si trovano ad affrontare un dilemma politico di non facile soluzione: continuare a pagare i sussidi e mantenere calme le piazze o adottare politiche finanziarie rigorose e rischiare una maggiore instabilità? I casi di Kenya e Nigeria sono esemplificativi al riguardo, con entrambe le nuove amministrazioni che hanno tagliato i sussidi per il carburante, che costavano svariati milioni di dollari al giorno, in una politica che ha colpito duramente le classi sociali più povere. La scommessa (rischiosa) di lungo periodo è che, liberate le casse statali dall’onere del pagamento dei sussidi, il denaro potrà essere speso per gli investimenti.

Un elemento comune a tutti i sistemi economici del continente è stata l’iniziale difficoltà nell’approvvigionamento di risorse alimentari provenienti dalla Russia e dall’Ucraina. Tuttavia, grazie all’accordo sul grano mediato dalla Turchia, la pronosticata crisi alimentare è stata momentaneamente scongiurata. Secondo quanto riporta la World Bank, i prezzi delle commodity agricole sono in netto calo sia rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (-7,2%), che rispetto a sei mesi fa (-3,8%). Ciò nonostante, i temporanei incrementi di prezzo delle materie prime agricole hanno generano l’effetto di aumentare le spese statali sul breve e medio periodo. Quest’arco di tempo, peraltro, è necessario affinché abbiano effetto le politiche monetarie restrittive adottate dalle banche centrali sul piano globale per contrastare l’aumento dei prezzi.

Merita una menzione il caso egiziano, dove l’inflazione, specialmente quella alimentare, cresce ormai da più di un anno; il paese nordafricano è il primo importatore di grano al mondo, che proviene per la maggior parte da Russia e Ucraina. Nel mese di aprile, Il Cairo ha registrato un tasso d’inflazione alimentare pari al 31,5%, in calo per la prima volta da 10 mesi; ma se consideriamo lo stesso valore rispetto a un anno fa (14,9%), risulta quasi raddoppiato. Un’ulteriore criticità è rappresentata dal conflitto in Sudan iniziato il 15 aprile, che vede contrapposte le forze armate regolari e il gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces. Il timore egiziano è che una guerra prolungata aggravi le difficoltà economiche del Cairo; l’interscambio tra i due paesi ammonta, infatti, a 1,4 miliardi di dollari (2022) e il Sudan costituisce la seconda destinazione per le merci egiziane dopo la Libia. Sembra ancora presto per valutare l’impatto degli scontri in corso sull’economia del paese, ma appare certo che diverse società sospenderanno le loro esportazioni verso il paese in guerra. Alcune delle cause della congiuntura macroeconomica negativa del Cairo risalgono però a decenni di politiche poco oculate: la pervasività dell’esercito nei settori strategici dell’economica e i deboli diritti di proprietà, hanno contribuito a creare un persistente deficit commerciale e una scarsità nell’afflusso di investimenti e valuta estera.

Un problema parzialmente analogo contraddistingue l’economia della Tunisia. La rapida, anche se temporanea, crescita dei prezzi energetici nel 2022, la dipendenza dalle importazioni alimentari e l’aumento dei tassi d’interesse globali, hanno esacerbato la necessità di riserve estere di Tunisi. Le mancate riforme chieste al paese dal FMI nel 2016, come la riduzione degli stipendi pubblici, dei sussidi e l’allargamento della base fiscale, hanno aggravato il ciclo economico già negativo e comportato un graduale peggioramento del rating del paese. Data la congiuntura economica, dallo scorso ottobre la Tunisia ha intrapreso i negoziati per un nuovo accordo da 1,9 miliardi di dollari con il FMI; tuttavia, le condizioni richieste dall’istituzione internazionale hanno portato il presidente Saïed a definire “inaccettabili i diktat stranieri che impoveriranno il paese”. Le dichiarazioni hanno causato una riduzione dell’affidabilità dei titoli di stato tunisini e una percepita minaccia alla sostenibilità del debito da parte degli operatori finanziari.

Strettamente collegato alla tendenza inflazionistica è il problema del debito pubblico, che rappresenta un elemento di criticità strutturale. Un caso emblematico della dinamica in via di sviluppo è quello del Kenya, dove l’esposizione debitoria, coniugata a un problema di mancanza di valute estere, ha imposto a Nairobi il dilemma tra pagare gli stipendi dei propri dipendenti pubblici o dichiarare default. Al momento il Kenya ha scongiurato lo spettro del default grazie alle iniezioni di liquidità da parte della World Bank ma, nel lungo termine, restano diverse incognite da risolvere. La Cina ha recentemente elargito il prestito più basso concesso a Nairobi a dimostrazione del fatto che, al netto dei solidi legami finanziari tra i due paesi, qualcuno a Pechino potrebbe non aver gradito la retorica anticinese di Ruto. In questo senso, le ricette per cercare di ridurre il debito pubblico sono state diverse e alcune anche inaspettate, come quella della privatizzazione delle università. L’élite di Nairobi, seguendo il protocollo delineato nel manifesto del Kenya Kwanza di Ruto, sembra decisa a stringere i denti nel breve periodo per poi godersi i dividendi di una maggiore espansione economica e dell’integrazione dei mercati regionali, preferendo il ricorso a prestiti multilaterali. Convincere gli investitori resta un problema, considerando anche l’aumento della disoccupazione giovanile e la conseguente instabilità politica.

La crisi del debito sta colpendo anche alcune delle economie nordafricane. Nonostante i livelli di debito dell’area non siano eccessivamente elevati in termini assoluti, la rapida e costante crescita del debito e la sua natura preoccupano gli operatori economici. Secondo la World Bank, infatti, i paesi che vedono una crescita costante del debito in rapporto al Pil, come l’Egitto e la Tunisia, registreranno un’espansione dell’economia sostanzialmente contenuta.

D’altra parte, anche il debito estero costituisce una criticità strutturale di molte economie del continente. Gli stati africani hanno infatti accumulato una quota di debito estero rilevante nello scorso decennio, traendo vantaggio da un’ampia disponibilità di fondi a basso tasso di interesse da parte delle istituzioni finanziarie internazionali e dai paesi terzi: è il caso della Cina, che nel 2016 ha elargito prestiti per quasi 30 miliardi di dollari nel continente, per poi ridimensionare il proprio impegno negli anni successivi. Lo stock totale di debito estero africano ha superato 1 trilione di dollari nel 2021 e i relativi costi di servizio hanno toccato i 100 miliardi di dollari. In particolare, l’Egitto e la Tunisia costituiscono rispettivamente il 13% e il 4% del debito estero del continente. Lo stock di debito estero si somma quindi ai livelli in continua crescita del debito interno; due traiettorie che rappresentano un’aspettativa di incertezza e possibile rischio per la stabilità delle economie della regione.

La disoccupazione giovanile

Il rallentamento della crescita economica pone l’accento su diverse criticità dei sistemi economici del continente. Uno di questi è la disoccupazione. Nonostante l’indicatore risulti sotto la media rispetto ai paesi non africani, specialmente per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, bisogna considerare due aspetti. Primo, persistono sostanziali differenze tra i paesi del continente: nella regione del Maghreb, la disoccupazione giovanile media supera il 30% della popolazione, mentre in Africa sub-sahariana si attesta intorno all’11%. Secondo, una quota rilevante di giovani africani risulta impiegata nell’economia informale. Come riporta l’African Development Bank, nonostante 10-12 milioni di giovani (tra i 15 e i 24 anni) che ogni anno entrano nel mercato del lavoro, i posti di lavoro creati ogni anno sarebbero 3 milioni.

È da notare il caso della Tunisia: una criticità con cui il paese dei gelsomini è chiamato a misurarsi è proprio l’alta disoccupazione, che tipicamente si genera in un sistema economico stagnante. L’indicatore ha visto un incremento sostanziale rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno (da 15,2% a 16,1%). In particolare, desta preoccupazione la disoccupazione giovanile, che nello stesso periodo è passata dal 38 al 40%. Tale aspetto apre anche a un possibile problema dal punto di vista sociale, considerato il malcontento che può nascere in un contesto che vede retrocedere lo stato di diritto e un sistema economico che non offre garanzie né prospettive. Uno dei pochi sostenitori su cui può fare affidamento Tunisi è l’Algeria, che al momento ha garantito il proprio supporto politico ed economico al paese dei gelsomini attraverso prestiti, depositi e forniture di gas a prezzi agevolati. Quest’appoggio economico ha comportato l’allineamento di Tunisi, storicamente neutrale in merito alla questione del Sarah occidentale, con Algeri al fianco del Fronte Polisario. Analogamente, anche il sistema economico algerino fronteggia un alto tasso di disoccupazione giovanile, che si attesta al 30%.

Parzialmente diversa la questione per l’Africa subsahariana dove, a fronte di una tendenza che conferma la decrescita della disoccupazione dopo l’impennata del 2021, permangono alcune criticità. Vanno sottolineati i dati preoccupanti che caratterizzano alcune delle economie sviluppate del continente, con il Sud Africa (29%) che si conferma il paese con il più alto tasso di disoccupazione, così come il Botswana (20%). In questo contesto, il dato della disoccupazione sahariana mostra ancora le stesse criticità quasi croniche, con il 20% degli high-skilled workers che ancora faticano a trovare un’occupazione capaci d’incrociarsi con i titoli di studio. Un caso di youth bulge da manuale che rischia di presentare il conto nel lungo periodo con maggiore instabilità politica.

Conclusioni

In senso generale, la recessione Godot non ha prodotto lo scenario apocalittico paventato da molti, ma ha comunque posto l’accento sulle criticità strutturali delle economie del Mediterraneo allargato che spesso vengono dimenticate a causa del propagarsi di una retorica sostanzialmente acritica sulla crescita. Lo scenario che emerge dai primi sei mesi dell’anno in corso è contraddistinto da economie troppo dipendenti dagli investimenti esteri in termini di liquidità, con debiti pubblici ingombranti e caratterizzate da una scarsa interconnessione commerciale e finanziaria. In questo senso, se e quanto il livello di crescita di alcune economie della sponda sud del Mediterraneo potrà essere mantenuto dipenderà in gran parte dalla capacità geopolitica oltre che finanziaria di questi attori di conseguire una soggettività crescente che li doti di risorse proprie a livello finanziario rompendo la dipendenza dagli attori esterni in termini finanziari e commerciali.

Su questo scenario si intravedono due tipi di scontro: quello per l’approvvigionamento alimentare e quello per la riduzione del debito, che vedono contrapposti Europa e Stati Uniti da una parte e Cina e Russia dall’altro. In ambito finanziario i paesi occidentali si trovano in difficoltà nell’affrontare queste criticità per alcune motivi di ordine pratico: primo su tutti quello che i debiti sovrani africani si trovano sottopressione anche a causa dell’aumento dei tassi decisi dalla BCE e dalla Fed, come i tecnici del continente non hanno mancato di sottolineare. In questo senso, alcuni messaggi che giungono dalle leadership africane in merito alla necessità di ridurre la dipendenza dal dollaro negli scambi commerciali rappresentano un segno abbastanza evidente d’insoddisfazione. Il valore geopolitico della crisi finanziaria in atto è già evidente nei casi di Egitto e Tunisia. Il ciclo economico negativo ha portato Il Cairo sempre più vicino ai paesi del Golfo, che hanno trovato nel tentativo di stabilizzazione dell’economia egiziana una ragione di influenza e aumento del proprio peso geopolitico nella regione. L’approccio di questi paesi nei confronti del Cairo è cambiato nel corso degli anni: si è passati da relazioni dettate principalmente da logiche politico-securitarie alla volontà di un ritorno finanziario dai propri investimenti nel paese, controllandone gli asset strategici. Allo stesso tempo, si registra un concreto timore per la tenuta del sistema economico egiziano, da cui deriva un interesse del CCG verso le politiche economiche del Cairo. La precaria condizione finanziaria dell’Egitto e la dipendenza dai fondi stranieri sembrerebbero spingere il paese verso le profonde riforme che chiede il FMI. Tuttavia, un tale cambio dell’assetto interno rischia di minare il sistema di potere del presidente al-Sisi, che trova fondamento nel ruolo dell’esercito. Come afferma efficacemente Maged Mandour, “il regime è una vittima del proprio successo. Con l’eliminazione dei centri del potere civile, l’esercito domina lo stato e ha cambiato radicalmente la sua natura, da un’istituzione militare a un partito politico, che controlla le politiche pubbliche e gli apparati statali”. Questa evoluzione degli apparati militari ha indebolito anche il ruolo del presidente, che non riesce a portare avanti le riforme richieste.

La Tunisia attraversa una fase di stallo in relazione alla politica economica. L’incapacità del governo di mobilitare fondi mostra la necessità di risorse finanziarie per stabilizzare l’esecutivo e gestire le crescenti tensioni sociali. Il comportamento del presidente tunisino nel guadagnare tempo sembrerebbe mostrare inadeguatezza o mancata volontà di far fronte alle difficoltà del sistema economico. Lo scenario più plausibile sembrerebbe quindi un’impasse prolungata che permetterebbe a Saïed di accentrare ulteriormente i poteri presidenziali; potrebbero quindi aumentare gli arresti di oppositori politici e il soffocamento delle proteste diventare più intenso. Di conseguenza, la condizione socioeconomica del paese vedrebbe un progressivo e costante peggioramento. Considerato questo scenario e il peggioramento degli indicatori macroeconomici, le scarse aspettative degli operatori economici sul miglioramento del ciclo economico e il mancato supporto delle monarchie del Golfo, di cui gode invece l’Egitto, aumentano le possibilità di default del paese.

Ad osservare i dati, sembrerebbe che i debiti delle economie nordafricane siano sempre più insostenibili. Ciò deriva anche dal rafforzamento, con le dovute differenze, di sistemi di potere autoritari in seguito alle primavere arabe. In assenza di riforme politiche ed economiche strutturali che diano inizio a cambiamenti sostanziali di questi sistemi politico-istituzionali, il collasso degli assetti economici del Maghreb sembrerebbe inevitabile, con conseguenze devastanti sia per l’area del Mediterraneo Allargato, che per i paesi oggetto d’analisi.

Le potenziali conseguenze derivanti dalla crisi economica in corso in Africa rappresentano un fattore di rischio da non sottovalutare per l’Italia. In primo luogo, lo stress economico per i paesi della regione si tradurrebbe in un aumento dei flussi migratori e i primi effetti in questo senso cominciano ad essere visibili. Già nel 2022 la spinta migratoria è aumentata del 60% rispetto all’anno precedente, a causa della perdurante crisi economica che affligge la Tunisia e della vicinanza geografica alle coste italiane. Il flusso migratorio proveniente dal paese dei gelsomini, seconda nazionalità per numero di sbarchi nel 2022, risulta prevalentemente autoctono. Tuttavia, si rileva una crescente presenza di migranti subsahariani, i cui trasferimenti il presidente tunisino ha definito “un complotto per modificare la demografia del paese”. A questo si aggiungono i rischi più prettamente geopolitici. Infatti, l’incapacità delle istituzioni finanziarie multilaterali e dei singoli stati di portare supporto alle economie emergenti rilancerebbe giocoforza il modello della cooperazione bilaterale impiegato da Russia e Cina. In questo senso l’attivismo di Pechino con le iniziative sul piano finanziario per il bail out degli stati del continente, unito al supporto russo in termini energetici e alimentari riscuote un successo crescente presso le opinioni pubbliche locali. La recessione non c’è, ma i fattori di crisi non mancano.

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