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Nel mutato contesto internazionale, l'Italia continua ad adoperarsi per la stabilizzazione del paese. Il punto di Daniele Ruvinetti

Ventuno comuni della Libia meridionale saranno oggetto di interventi sostanziali per migliorare le infrastrutture e i servizi di base e rafforzare lo sviluppo del settore privato in base al programma "Baladiyati", finanziato dall'UE in collaborazione con il Ministero libico della governance locale. Dal 2018, il programma ha raggiunto più di 3 milioni di persone in 27 municipalità libiche e si sta ora espandendo al Sud del Paese, anche se le sue attività spesso non raggiungono i riflettori della cronaca. Mentre invece sono proprio queste attività che i libici, che soffrono da troppo tempo il peso del depauperamento delle loro condizioni di vita, ritengono fondamentali.

Non è un caso se tra le rappresentanze diplomatiche più impegnate dietro a questa operazione ci sia quella italiana — la cui guida è stata recentemente inaugurata da Gianluca Alberini, bravo ambasciatore che trova già un lavoro eccellente avviato dal suo predecessore, Giuseppe Buccino. L’Italia è sempre restata in Libia, anche negli anni più bui, quando lo scontro politico interno era stato trasformato in conflitto — anche per conto di interessi talvolta mossi per procura da attori esterni. L’Italia ha il polso della situazione, anche attraverso l’impegno di aziende come Eni, il cui ruolo nel tessuto sociale è fondamentale.

È un bene assoluto se in questa fase attuale, dove è tornato evidente e palpabile lo spazio per una stabilizzazione profonda (anche attraverso il passaggio elettorale, secondo una nuova roadmap frutto di riallineamenti regionali), l’Italia stia guidando alcune dinamiche politico-diplomatiche nel paese. La visione di Roma, espressa anche direttamente dal governo italiano (che ha dimostrato impegno e coinvolgimento sul dossier) è perfettamente allineata a quella delle Nazioni Unite.

Chiaro, per l’Italia è in ballo un interesse nazionale. Da un lato c’è la pressione (securitaria e politica) prodotta dai flussi migratori, che utilizzano la Libia come passaggio verso il Mediterraneo — creando catastrofi tragiche come quella di Pylos (le operazioni di ricerca delle vittime del naufragio di un peschereccio partito dalla Cirenaica con a bordo fino a 800 migranti, avvenuto il 14 giugno a 47 miglia nautiche a largo del Peloponneso, continuano, ma le speranze sono davvero poche). Dall’altro c’è la necessità di contenere potenziali azioni di attori come la Russia — tuttora presente con il Wagner Group nell’Est della Libia — che potrebbero avere interessi totalmente divergenti alla stabilizzazione.

La creazione di una multipolarità negli affari internazionali per Mosca coincide con la strutturazione di un sistema di multi-conflittualità. Destabilizzazione lungo segmenti multipli e finalizzata per creare fronti in cui attirare attenzione e coinvolgimento — ossia sforzi — dei rivali strategici. Dinamica ormai nota, ma che va contenuta e contrastata soltanto con la presenza, l’azione incisiva e costante, con la moltiplicazione dell’impegno. Soprattutto in momenti che potrebbero cambiare il corso della storia. E forse per la Libia siamo davanti a una nuova occasione.

È molto interessante, a tale proposito, l’apparente allineamento italo-francese. L’obiettivo è pressare tutti i principali stakeholder locali — a cominciare dal primo ministro Abdelhamid Dabaiba, leader della Tripolitania, e dal capo militare di Bengasi, Khalifa Haftar — per creare un equilibrio nell’attuale contesto interno. Solo attraverso di esso si potrà raggiungere la sicurezza — politica, sociale, militare — per andare al voto. E soprattutto per rendere i risultati del voto (presidenziale e parlamentare) accettati da tutti.

Parigi e Roma sembrano ormai interessate ad abbandonare le posizioni di distanza e seguire insieme il processo sotto egida Onu. Un atteggiamento anche frutto di quel mutato contesto regionale. È da un paio di anni che ci si attende che il dossier libico benefici di questo clima di distensione generale. Lo stallo, il ritorno di frizioni anche nei mesi passati, testimoniano come esso sia complesso e delicatissimo. Ma l’insostenibilità dello status quo è emersa diverse volte, con la scorsa estate che ha fatto ritornare alla mente scenari cupi, quando gli scontri armati tra milizie sono tornati a Tripoli.

Parte delle fazioni libiche trae benefici dall’attuale situazione, è indubbio. In certi contesti c’è sempre chi capitalizza dal caos. E l’ordine che le elezioni potrebbero portare significherebbe per questi la perdita di posizioni di potere. È qui che un impegno politico di un’Europa compatta — che l’asse franco-italiano rappresenterebbe — potrebbe anche portare i libici a isolare certi soggetti e comprendere come essi siano il problema del Paese. A fianco a questo, la Comunità internazionale dovrebbe aiutare la Libia a costruire un sistema di pesi e contrappesi che parta dalla legge elettorale, affinché le consultazioni abbiano un perimetro definito. E soprattutto abbiano una proiezione chiara sul futuro. Altrimenti, da sé il voto non può essere panacea di ogni male. Gli spazi sono tornati a esserci, l’augurio per i libici è che non ci si faccia sfuggire anche questa nuova occasione.

A tal proposito, è positivo il passo avanti fatto dal Comitato 6+6, il sistema di dialogo tra Camera dei Rappresentanti e Consiglio di Stato, attraverso il quale si è arrivato a un accordo per un terreno comune sui testi giuridici che dovrebbero disciplinare le elezioni presidenziali e legislative, nonché sull’idea di formare un nuovo governo a funzioni ristrette per organizzare il voto. Haftar ha appoggiato il processo, mentre ci sono state ritrosie da parte onusiana. Tuttavia, tali dinamiche intra-libiche sono da sostenere, anche perché ricevono consenso da varie parti — compreso dalle componenti identificabili nel prodromo di esecutivo che avrebbe dovuto guidare Fathi Bashaga. Il mini-governo potrebbe diventare una garanzia di equilibrio, sotto uno spirito organizzativo unitario al quale anche Dabaiba dovrebbe partecipare e non opporsi.

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