Verso un nuovo sistema di sicurezza mediorientale
Dal caso Qatar alla convergenza araba all’ONU. Il punto di Emanuele Rossi

L’attacco aereo israeliano del 9 settembre contro leader politici di Hamas che si stavano riunendo a Doha, segna un momento strategico di rilievo nella storia in evoluzione del Medio Oriente. L’azione su suolo qatariota conferma definitivamente che nessun luogo della regione è sicuro, non ci sono più spazi che si possano considerare immuni dall’uso della forza: la consuetudine che in qualche modo esistessero pesi e contrappesi è saltata. L’innesco di un dibattito strategico di ampia portata all’interno del mondo arabo e islamico è conseguente. Anche perché gli Stati Uniti – per ora garanti pressoché totali della sicurezza regionale – potrebbero essere stati in qualche modo coinvolti nel raid deciso a Tel Aviv, oppure esserne stati avvisati con pochissimo margine di manovra diplomatico, con la consapevolezza che comunque hanno scelto (come ovvio) di non usare i propri sistemi di difesa aerea contro l’alleato israeliano (sacrificando qualcosa nel rapporto con il Qatar?).
La riunione di emergenza convocata a Doha dalla Lega Araba e dall’Organizzazione della Cooperazione Islamica, il 16 settembre, non ha certificato un’unanimità compatta ma piuttosto un consenso costruito attorno a tale principio. L’attacco è stato percepito come una violazione della sovranità di uno Stato, e quindi anche come un attacco alla stessa idea di mediazione regionale. In altri termini, non è soltanto il Qatar a essere stato colpito, ma quell’architettura diplomatica con cui il mondo arabo e islamico prova a contenere i conflitti.
Era già avvenuto. Ad aprile, l’Iran aveva sfogato la sua indignazione per gli attacchi subiti da Israele e Stati Uniti (anche quello un altro momento importante della storia d’erosione della deterrenza che fa parte della rimodellazione degli equilibri della regione). Fu una rappresaglia controllata, annunciata e simbolica, ma la Repubblica islamica aveva colpito la grande base di al-Udeid, a pochi chilometri da Doha, che ospita l’hub del CentCom (il Comando Centrale con cui il Pentagono gestisce l’area inquieta che va dall’Egitto all’Afghanistan).
Doha aveva risposto in modo misurato, anche perché l’emirato ha un destino legato all’Iran, con cui condivide il principale giacimento di gas naturale conosciuto – ossia vi condivide il motore che rende la sua economia così florida. In risposta all’attacco israeliano, il Qatar ha usato la stessa misura di carattere diplomatico, ma calcando più la mano contro lo stato ebraico, visto anche il generale clima di indignazione che circonda il governo di Benjamin Netanyahu per la violentissima perpetrazione della guerra a Gaza – che, val la pena sempre ricordare, è esplosa dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, attacco festeggiato dalla leadership dell’organizzazione palestinese con preghiere e abbracci, come racconta un video girato a caldissimo, due anni fa, proprio all’interno dello stesso edificio bombardato da Israele due settimane fa.
Tuttavia, nonostante la durezza delle parole usate dal mondo arabo contro Israele, con richieste di responsabilità e minacce di conseguenze diplomatiche o economiche, è improbabile che emergano ulteriori misure punitive concrete. Il motivo risiede soprattutto nelle divisioni interne, in particolare tra i Paesi che hanno normalizzato i rapporti con Israele attraverso gli Accordi di Abramo. Non a caso, il summit di Doha è coinciso con il quinto anniversario di quegli accordi, oggi più fragili che mai. Le azioni israeliane sollevano effettivi dubbi sulla loro tenuta, soprattutto se le relazioni diplomatiche non garantiscono protezione da atti militari unilaterali. Alcuni Stati del Golfo potrebbero valutare un ridimensionamento dei legami con Israele, ma al momento si tratta più di un’opzione politica che di un impegno vincolante. Come ha osservato l’assistente segretario generale della Lega Araba, Hossam Zaki, la risoluzione approvata a Doha non è coercitiva, ma lascia a ciascun Paese la scelta di riconsiderare i propri rapporti con Israele se lo ritiene necessario.
Doha stessa, che ha dato ospitalità ai notabili politici di Hamas con lo stesso spirito di dialogo e negoziato con cui ne dà a una rappresentanza diplomatica dei Talebani, ha condizionato la sua prosecuzione del ruolo di mediatore a una pubblica scusa da parte israeliana. Il Qatar ha fatto tanto in questi due anni di guerra a Gaza per cercare di mediare tregue e scambi di prigionieri e ostaggi – che sono anche alla base della continuazione della guerra israeliana. L’emirato però pare poter accettare anche margini di flessibilità sul linguaggio di scuse da parte di Israele, pur sapendo che per mantenere standing e credibilità regionale e internazionale deve ottenere qualche riconoscimento.
Parallelamente, il summit di Doha ha però anche evidenziato una rara convergenza tra Arabia Saudita e Iran, con la presenza congiunta di Mohammed bin Salman e del presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Questo allineamento retorico sottolinea come la questione palestinese stia diventando un catalizzatore per un ripensamento complessivo della sicurezza regionale in ottica più strategica.
In questo contesto, la dichiarazione congiunta emersa dalla conferenza franco-saudita avvenuta a latere dell’Assemblea Generale dell’ONU offre una cornice più ampia. Non si tratta più soltanto di una riaffermazione di principio della soluzione a due Stati, ma di un tentativo di inserire la questione palestinese all’interno di un nuovo sistema di sicurezza regionale, con la consapevolezza che questa ultima guerra a Gaza, con i suoi effetti su tutta la regione, ha cambiato radicalmente le circostanze. Il riferimento al modello ASEAN e OSCE, contenuto nel joint statement della conferenza, suggerisce la volontà di esplorare architetture di sicurezza che vadano oltre la sola garanzia americana, oltre la dimensione storica, puntando a una maggiore autonomia regionale.
L’attacco in Qatar potrà effettivamente segnare un punto di svolta nella sicurezza mediorientale? Gli Stati arabi potrebbero provare a delineare un quadro meno dipendente da un’unica potenza garante, con la questione palestinese come banco di prova per un sistema di sicurezza collettivo. Questo apre spazi a nuovi attori – dalla Cina alla Turchia, fino a India e Russia – pronti a inserirsi nei nuovi equilibri. Diversi leader stanno evocando meccanismi di cooperazione più stretta, dalla difesa aerea alla sorveglianza, fino a un parziale sganciamento dalle garanzie statunitensi. Ma gli strumenti restano limitati e i costi di un confronto diretto con Israele sono elevati, specie per i Paesi della regione con legami consolidati con Israele. Il summit di Doha ha inviato un messaggio simbolico forte. Per il futuro, molto dipenderà dalla capacità di tradurre le dichiarazioni in atti vincolanti e di trasformare la condanna in un reale cambiamento di percezioni sulla fiducia reciproca in materia di diplomazia e sicurezza.