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Come aumenta la presenza cinese nei paesi arabi

Dalla recente riunione dell’Arab-China Business Forum la conferma di relazioni crescenti della Cina coi paesi arabi

“Se volete un partner affidabile nel mondo, uno dei migliori partner al mondo, allora quello è la Repubblica Popolare Cinese”, ha dichiarato Mohammed Abunayyan, presidente di una società saudita di energia rinnovabile. Parlava all’Arab-China Business Forum, e al momento di quelle sue parole, la platea ha risposto con applausi scroscianti. “La Cina è un partner su cui si può contare”, ha incalzato — e via nuovi applausi.

Quello di due settimane fa è stato il decimo business forum arabo-cinese, per la prima volta ospitato dall’Arabia Saudita. Sul tavolo vi sono una serie di incroci economici e politici: il posto dei paesi del Golfo negli affari internazionali e il loro ruolo nella competizione tra potenze; lo sviluppo della regione in un momento di evoluzione e distensione generale; la crescita cinese (che è stata un po’un flop stando alle ambizioni di ripresa dopo le chiusure della pandemia).

La riunione di due giorni ospitata in Arabia Saudita tra 11 e 12 giugno, ha consegnato due consapevolezze: alla Cina, la percezione di essere un attore a cui l’Arabia Saudita, e l’intera regione, spalancano le porte. Alla regione che, davanti a un percepito ritiro di interesse statunitense, Pechino è pronta ad esserci. Le argomentazioni inevitabilmente si sovrappongono.

I Paesi del Golfo — su tutti Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar — stanno spingendo i loro interessi sul palcoscenico internazionale. Per farlo intendono partire dalle proprie capacità economiche (accresciute anche grazie ai guadagni extra collegati alla crisi del mercato energetico prodotto dall’invasione russa dell’Ucraina). La Cina è il primo acquirente delle materie prime energetiche del Golfo, ed è anche un partner ideale per spingere sulla transizione economica che la differenziazione dagli idrocarburi impone a quelle nazioni-reservoir.

Allo stesso tempo, per Pechino il Golfo è parte fondamentale della connettività su cui si dovrebbe basare la globalizzazione con caratteristiche cinesi che le iniziative globali del leader Xi Jinping stanno delineando. E dalla regione si comprende l’opportunità: paesi come l’Arabia Saudita intendono, per esempio, trasmettere allo Zhongnanhai che loro possono essere effettivamente parte di quello sviluppo cinese globale, e anzi farne da nodo propulsivo.

Vi è dunque un interesse reciproco, anche perché Riad come Abu Dhabi hanno ormai deciso che il loro destino si legherà alla multipolarità in costruzione: non intenderanno essere partner esclusivi di qualcuno (o qualcosa), ma vogliono e vorranno (per quanto più possibile) sfruttare ogni genere di occasione per crescere. Con l’India succede qualcosa di simile, con gli Stati Uniti la partnership resta solida, con l’Unione Europea qualcosa è in costruzione. Lavorare con tutti, contro giochi a somma zero.

“Stiamo raggiungendo tutti e chiunque voglia venire a investire con noi è più che benvenuto”, ha dichiarato al business-forum il principe Abdulaziz bin Salman, ministro dell’energia e fratello del principe ereditario Mohammed bin Salman. Ma non è solo una questione economica, c’è spazio anche per la sfera politica, perché mai come in questo momento, nel Golfo, le due dimensioni si sovrappongono e si sommano.

La Cina comprende. Il caso della normalizzazione tra Arabia Saudita e Iran è da studiare. Pechino ha portato i due arcirivali — ideologici e geopolitici — a formalizzare un processo di distensione storico. Lo ha fatto beneficiando di anni di colloqui informali, mediazioni, rotture e discussioni successive. La Cina ha facilitato il processo diplomatico, ma lo slancio è venuto fondamentalmente dall’interno della regione. La mediazione riuscita dimostra però che Pechino ha compreso correttamente l’aspirazione allo sviluppo che in questo momento guida le politiche regionali (si è ormai compreso che evitare atteggiamenti conflittuali è nell’interesse generale).

Tuttavia, “non c’è nulla di simile a una cosiddetta grand strategy tra noi e la Cina”, ha sottolineato il principe Abdulaziz parlando davanti a quegli imprenditori e investitori regionali riuniti in Arabia Saudita. Dichiarazioni che fanno da risposta alle critiche riguardo al fatto che le aperture alla Cina possano essere viste come esposizioni eccessive da parte degli Stati Uniti. “Tuttavia devo dirlo chiaramente e senza mezzi termini: stiamo lavorando con loro su molte cose”, ha aggiunto segnalando un processo ormai innescato.

Dinamiche su cui anche Washington sta prendendo consapevolezza. Il segretario di Stato Antony Blinken — che è stato in Arabia Saudita due giorni prima che iniziasse il vertice degli arabi con la Cina — ha sottolineato che nelle intenzioni dell’America non c’è chiedere ai propri partner un de-coupling (impossibile) dalla Repubblica popolare. E che non c’è nessuna intenzione americana di lavorare contro la capacità cinese di svilupparsi (queste parole sono state il centro del messaggio che il capo della diplomazia statunitense ha portato con sé nella recente missione a Pechino).

Posizioni che aprono a uno scenario diverso, comunque, il “de-risking”, ossia evitare influenze, dipendenze, eccessivi vantaggi per Pechino. È questo riguarda anche le collaborazioni e le attività incrociate tra Washington e Pechino, come quelle che per esempio coinvolgono il Golfo (soprattutto sui temi delle nuove tecnologie e i loro risvolti sociali, militari, industriali e dunque strategici).

Tra gli accordi annunciati durante il forum, figurano quelli che prevedono l’investimento di aziende cinesi nell’estrazione del rame e nelle energie rinnovabili nel Regno, nonché un accordo da 5,6 miliardi di dollari tra il Ministero degli Investimenti saudita e un’azienda cinese di veicoli elettrici per la creazione di una joint venture per la ricerca, la produzione e la vendita. Su tutti gli argomenti in ballo, lo sviluppo di una cooperazione sui materiali critici (di cui l’Arabia Saudita potrebbe essere ricca) e quelle sulle tecnologie emergenti sono centrali.

Washington guarda a certe interazioni con circospezione. Basti pensare che tra le aziende cinesi presenti al forum ce n’erano alcune che sono finite nelle blacklist del governo americano per le accuse di contribuire con le loro attività alla sorveglianza delle minoranze etniche, colpite con limitazioni sulla loro capacità di fare affari con le aziende americane. Alcune anche tra quelle attive nello Xinjiang, dove il governo cinese è accusato di compiere campagne di rieducazione culturale contro le minoranze musulmane (su tutte gli uiguri).

Argomento questo dello Xinjiang che non a caso non rientra formalmente negli scambi tra Cina e paesi arabi, in piena ottica di non interferenza in affari reciproci che toccano il tema dei diritti umani e civili. Non un aspetto indifferente se si considera che quello dei diritti è il principale terreno di contrasto tra alcuni paesi del Golfo e gli Stati Uniti, e uno dei grandi temi su cui Washington intende differenziarsi da Pechino. Ma marcare questa differenza (e supposta superiorità delle Democrazie), non trova sempre feedback positivi. Non in tutte le regioni del mondo. Non tra tutti gli interlocutori.

Anche per questo atteggiamento meno vincolante, la Cina (con la Turchia) è vista come l’alleato più forte e amichevole della regione, davanti a Stati Uniti e Russia, secondo il sondaggio Arab Youth Survey 2023. Il 15° sondaggio annuale della società di pubbliche relazioni ASDA’A BCW, presentato nei giorni scorsi a Dubai, fa registrare un 80% degli intervistati descrivere la Repubblica popolare come un alleato, rispetto al 72% che vede gli Stati Uniti in questo modo. Tutto sommato questa percezione nei confronti della Cina da parte dei giovani arabi non sorprende: in un quadro economico non sempre eccezionale all’interno della regione, la presenza più assertiva della Cina è sempre più visibile. E sempre più giovani ottengono un lavoro grazie ad aziende cinesi e la cooperazione con esse di società locali.

Poi c’è il soft power. Questo mese, per esempio, un gruppo di 10 social media influencer cinesi ha fatto un viaggio in Israele, dove sono stati ospitati dal Ministero del Turismo per raccontare il loro paese e la loro cultura. Wang Xiao, che ha più di 3 milioni di follower su Weibo, era uno dei partecipanti. “È la mia seconda visita in Israele dopo 13 anni, sono rimasto profondamente colpito dalla vitalità di questa antica civiltà”, ha dichiarato all’agenzia stampa statale Xinhua, centrando la sovrapposizione tra passato e futuro molto apprezzata nel paese.

Mentre il gruppo visitava Israele, il presidente palestinese Mahmoud Abbas era in Cina per inaugurare un busto del suo predecessore Yasser Arafat a Pechino e ricevere l’appoggio del leader cinese Xi Jinping sulla soluzione dei due stati e la promessa di creare un accordo di libero scambio (a dicembre 2022 la Palestina è entrata con un Memorandum of Understanding nella Belt and Road Initiative). Business ma anche politica, si diceva.

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