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RDC-Rwanda: la pace è in bilico

Gli sforzi internazionali per portare la pace nel Congo orientale stanno dando i loro frutti, come dimostrato dall'aumento della sicurezza e dal ritorno della calma nella regione. L'analisi di Corrado Čok

Gli sforzi internazionali per riportare la pace nell’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) iniziano a dare i primi frutti. Le mediazioni condotte dal Qatar e dagli Stati Uniti hanno compiuto progressi significativi negli ultimi mesi, aprendo la strada ad accordi preliminari sia tra la RDC e il Ruanda, sia tra la RDC e il principale gruppo ribelle attivo nella regione orientale, il Movimento del 23 marzo (M23). Tuttavia, la crisi prolungata che affligge il Congo è ben lontana dall’essere risolta e continua a minacciare la stabilità dell’intera regione dei Grandi Laghi.

Il conflitto nell’Est della RDC è riesploso alla fine del 2023, quando il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Ruanda, ha iniziato a conquistare territori nella strategica e ricca di risorse minerarie provincia del Nord Kivu. Il M23 ha origine nelle comunità tutsi dell’est del Congo e sostiene di voler proteggere i diritti di tali comunità dalle minacce poste da altri gruppi etnici, compresi i movimenti hutu ritenuti responsabili del genocidio ruandese del 1994. A gennaio 2025, la nuova avanzata del M23 è culminata nella presa di Goma, capoluogo del Nord Kivu e maggiore città della RDC orientale. Nei mesi di febbraio e marzo, il M23 — affiancato da un contingente stimato in 3-4.000 soldati ruandesi e rifornimenti militari — ha continuato ad avanzare in tutte le direzioni, istituendo amministrazioni locali nei territori conquistati. Tale espansione ha raggiunto importanti miniere di coltan e rotte di trasporto di minerali. Il contrabbando di risorse minerarie rappresenta la principale fonte di finanziamento del M23 e di altri gruppi armati attivi nell’est del paese.

L’esercito congolese e le milizie alleate — i Volontari per la Difesa della Patria (VDP), conosciuti anche come wazalendo — hanno faticato a contenere l’avanzata del M23 a causa di inefficienze strutturali, corruzione, scarsità di risorse e mancanza di coordinamento. Il fronte congolese ha subito un ulteriore indebolimento con l’annuncio, tra febbraio e marzo, del ritiro delle truppe burundesi e della missione di peacekeeping guidata dal Sudafrica, precedentemente dispiegate in supporto a Kinshasa. Dal gennaio 2024, il numero di rifugiati congolesi è aumentato di oltre il 10%, mentre gli sfollati interni hanno raggiunto il livello record di 7,3 milioni, secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Tali cifre allarmanti fanno di questa la seconda crisi umanitaria più grave al mondo dopo quella sudanese.

Ciononostante, una serie di accordi mediati a livello internazionale ha in parte mitigato la crisi. Il 18 marzo, il Presidente della RDC Félix Tshisekedi e il Presidente ruandese Paul Kagame hanno raggiunto un cessate il fuoco immediato grazie alla mediazione qatariota, con un conseguente calo delle operazioni militari congiunte tra gli eserciti congolese e ruandese. Alla fine di aprile, la mediazione del Qatar ha compiuto un ulteriore passo in avanti, favorendo un accordo preliminare tra la RDC e il M23 — un risultato degno di nota, considerando che per lungo tempo il governo congolese aveva rifiutato di negoziare con un gruppo ribelle sostenuto da Kigali. A questo tavolo negoziale si sono affiancati anche gli altri principali mediatori: il Togo, subentrato all’Angola nella gestione del dossier all’interno dell’Unione Africana, e la Francia, attore con interessi strategici nella regione e legami di sicurezza consolidati con il Ruanda. Entrambi i percorsi negoziali proseguono con l’obiettivo di giungere ad accordi di pace complessivi.

Nel frattempo, i negoziati tra la RDC e il Ruanda si sono spostati a Washington. Sotto l’egida del Segretario di Stato americano Marco Rubio, i ministri degli Esteri dei due paesi hanno firmato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a raggiungere un accordo di pace globale, a riconoscere reciprocamente la sovranità e le rispettive esigenze di sicurezza, nonché a cessare ogni forma di sostegno ai gruppi armati non statali. Gli Stati Uniti stanno accompagnando tale processo di pace con una serie di accordi economici bilaterali che prevedono consistenti investimenti statunitensi in vari settori, tra cui infrastrutture, energia idroelettrica e, soprattutto, minerali critici. Da mesi Washington è in trattative con le parti per assicurarsi concessioni minerarie, nel tentativo di sottrarre parte del controllo delle risorse strategiche alla Cina e costruire una propria catena di approvvigionamento. Tuttavia, il grado di impegno degli Stati Uniti in materia di sicurezza regionale rimane incerto, così come l’effettiva propensione al rischio da parte degli investitori americani.

Nonostante tali sviluppi rappresentino una fonte di cauto ottimismo, è necessario considerarli con prudenza per una serie di motivi. L’Est del Congo ha una lunga storia di tregue fallite che risale alla Prima Guerra del Congo alla fine degli anni Novanta. Dopo la firma della dichiarazione a Washington, il ministro degli Esteri congolese ha affermato che si tratta solo del primo passo di un lungo cammino verso la pace. Il 5 maggio, Kinshasa e Kigali avrebbero sottoposto agli Stati Uniti due bozze di accordo che potrebbero condurre, entro la fine del mese, alla firma di un’intesa definitiva, sebbene la diffidenza reciproca tra le parti permanga.

Il terreno più insidioso resta tuttavia quello dei negoziati tra il governo congolese e il M23, dal momento che l’accordo preliminare non ha portato a un’interruzione delle ostilità. Gli scontri armati tra i VDP e il M23 proseguono, coinvolgendo talvolta anche l’esercito regolare congolese. Nonostante i rilevanti ostacoli finanziari e logistici, il M23 ha recentemente conquistato diversi villaggi nelle province del Nord e del Sud Kivu e, sebbene i negoziati siano ancora in corso, tali operazioni militari rendono più difficoltosa la possibilità di giungere a un’intesa globale.

Un eventuale accordo politico duraturo tra la RDC e il M23 richiederà probabilmente concessioni difficili e impopolari, come una condivisione del potere con il gruppo ribelle a livello locale e, forse, nazionale. Tuttavia, il clima politico a Kinshasa potrebbe non essere favorevole: la crisi ha infatti indebolito la posizione del Presidente Tshisekedi. I principali leader dell’opposizione hanno respinto la sua proposta di formare un governo di unità nazionale, mentre il possibile ritorno sulla scena politica dell’ex Presidente Joseph Kabila rappresenta un’ulteriore sfida alla sua autorità.

Un altro elemento di complessità riguarda la natura dei gruppi armati coinvolti. Se il M23 dipende in larga misura dal sostegno ruandese per le sue operazioni militari, i VDP costituiscono una coalizione frammentata di milizie che, in diverse occasioni, hanno contestato le decisioni del governo congolese e rigettato i colloqui tra Tshisekedi e Kagame. Ciò rende più difficile per le autorità di Kinshasa esercitare pressioni sui propri alleati armati per ottenere un cessate il fuoco. Di conseguenza, se il conflitto tra M23 e VDP dovesse proseguire, vi è il serio rischio che i cambiamenti sul terreno inducano RDC e Ruanda a un nuovo confronto diretto.

Oltre alla dimensione locale, il conflitto ha rilevanti implicazioni regionali. Il Burundi, che ospita una minoranza tutsi, è fortemente preoccupato dall’espansione del M23 lungo il confine con la RDC e teme un’incursione ruandese sul proprio territorio. L’Uganda, dal canto suo, ha rafforzato il proprio dispositivo militare nella provincia congolese dell’Ituri, cercando di mantenere un equilibrio tra i rapporti con la RDC e quelli con il Ruanda e il M23. Diversi paesi membri della Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC) sostengono Kinshasa: Sudafrica, Malawi e Tanzania hanno già inviato truppe nell’ambito della missione regionale di peacekeeping. Qualora si verificasse una nuova escalation, questi e altri paesi della regione potrebbero (ri)entrare nel conflitto, come già accaduto durante la Seconda Guerra del Congo (1998–2003), quando otto nazioni africane intervennero nel teatro congolese.

Nel contesto di un sistema internazionale sempre più anarchico e con le iniziative di mediazione lasciate alla discrezionalità dei singoli Stati, i disincentivi all’uso della forza si indeboliscono e gli attori esterni si mostrano più disinvolti nel ricorrervi, come dimostra il caso del Ruanda. Intanto, i prezzi dell’oro continuano a salire e si prevede un aumento del valore dei minerali critici, sospinto da tendenze tecnologiche e geopolitiche che spingono le economie avanzate a sviluppare catene di valore alternative a quella dominata dalla Cina. In sintesi, le risorse minerarie generano crescenti incentivi economici al controllo del territorio nell’Est del Congo, sia per attori locali che per potenze esterne.

Gli accordi preliminari e la parziale de-escalation avvenuti a Doha e Washington costituiscono un’opportunità rara per stabilizzare — seppur temporaneamente — l’Est della RDC. Poiché la pace continua a camminare sul filo del rasoio, alla comunità internazionale, in particolare all’Europa, è richiesto di sostenere tali mediazioni attraverso incentivi concreti alla pace e disincentivi chiari all’abbandono dei negoziati.

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