Il patto USA-Houthi e la posta in gioco nel Mar Rosso
Per il momento si tratta di un’intesa ristretta, senza coinvolgere altri attori colpiti dal conflitto o i principali alleati europei e asiatici degli Stati Uniti. Il punto di Emanuele Rossi

Il cessate il fuoco annunciato il 6 maggio dal presidente Donald Trump tra gli Stati Uniti e il movimento yemenita Ansarallah (più noto come “gli Houthi”) rappresenta una svolta tattica nella crisi del Mar Rosso, ma non segna un ritorno automatico alla sicurezza marittima nella regione. Sebbene l’accordo ponga fine alla’intensa campagna aerea statunitense lanciata con l’operazione “Rough Rider” a metà marzo — in risposta ai continui attacchi Houthi contro la navigazione commerciale — l’intesa presenta limiti strutturali e lascia irrisolti nodi strategici centrali.
La tregua, mediata dall’Oman (che conferma la sua capacità di azione diplomatica), prevede la cessazione degli attacchi reciproci, inclusi quelli contro navi militari e commerciali in transito nel Mar Rosso e nello stretto di Bab el-Mandeb. Si tratta tuttavia di un’intesa ristretta, che riguarda solo Stati Uniti e Houthi, senza coinvolgere altri attori colpiti dal conflitto, come Israele o i principali partner occidentali e asiatici degli Stati Uniti. La leadership Houthi ha infatti subito chiarito che il proprio sostegno alla causa palestinese continuerà “con ogni mezzo”, specificando che l’accordo non implica alcuna rinuncia agli attacchi verso Israele o verso navi ritenute “collegate”. Che ne sarà delle navi europee, difese finora con successo dalla missione EuNavFor Aspides?
Il giorno prima dell’annuncio, un missile balistico lanciato dallo Yemen è atterrato nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, causando feriti e brevi interruzioni nei voli internazionali. L’aviazione israeliana ha bombardato l’aeroporto di Sanaa per rappresaglia poche ore prima della dichiarazione di Trump sull’intesa. Dopo l’annuncio della tregua, gli Houthi hanno lanciato altri due missili verso Israele, confermando la natura limitata dell’accordo – che non ha ricostruito la deterrenza. Questo evidenzia come l’obiettivo dell’intesa sia principalmente evitare un’escalation diretta tra Washington e Ansarallah. L’ottica è quella transazionale dei risultati a effetto immediato che Trump preferisce.
Gli Houthi – gruppo ribelle in guerra da dieci anni contro Sanaa – si sono adattati, a causa di una combinazione di pressioni militari e calcolo di convenienza. Le forze statunitensi hanno colpito più di mille obiettivi in meno di due mesi, riducendo la capacità missilistica e di uso dei droni del gruppo e danneggiando infrastrutture chiave, tra cui impianti energetici e portuali. Ma se da un lato l’intensità dei bombardamenti ha spinto gli Houthi a cercare una tregua, dall’altro lato l’amministrazione Trump ha dovuto trovare un accordo riconoscendo costi e rischi di un’operazione estesa: oltre due miliardi di dollari, due gruppi da battaglia navali impegnati (uno spostato dall’Indo-Pacifico, lasciando parzialmente scoperta la presenza nella regione), e la possibilità crescente di coinvolgimento in un nuovo conflitto prolungato. A questi fattori si sono aggiunte le critiche per l’impatto dei bombardamenti sui civili, che sono arrivati in un contesto già devastato a livello umanitario da anni di guerra civile in Yemen (guerra prodotta dalla ribellione degli Houthi).
Allargando l’ottica dal successo (im)mediato, il cessate il fuoco tra Stati Uniti e Houthi ha anche complicato le relazioni tra Washington e Tel Aviv. Secondo alcune ricostruzioni, Israele non sarebbe stato avvertito della mossa trumpiana, e addirittura avrebbe appreso dell’intesa attraverso i media. Sono retroscena difficilmente verificabili, tuttavia anche questa vicenda (e forse più di altre) dimostra che tra i due alleati c’è una fase di distanza. La scelta ha suscitato stupore e allarme nell’establishment israeliano, già preoccupato per l’apparente apertura dell’amministrazione Trump a un riavvio dei colloqui con Teheran sul nucleare iraniano.
Per Israele, la tregua rappresenta un doppio segnale negativo. Da un lato la percezione di essere stato lasciato solo a gestire la minaccia degli Houthi, alleati diretti dell’Iran. Su questo, il malumore si è esteso anche al Congresso statunitense: i rappresentanti Josh Gottheimer (Democratico) e Don Bacon (Repubblicano) hanno definito la decisione di Trump “una concessione pericolosa” che “espone Israele a un rischio immediato”.
C’è poi il timore che l’accordo rifletta una strategia americana di accomodamento, utile a ridurre la pressione regionale ma a costo della sicurezza israeliana. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha promesso “risposte ovunque sarà necessario”, definendo i missili Houthi “armi iraniane”.
La frizione si inserisce in un contesto già fragile, segnato da divergenze sulla gestione militare della crisi a Gaza, sulla politica di Israele verso gli aiuti umanitari nella Striscia e sulle scelte riguardo agli ostaggi ancora in mano a Hamas dal sanguinoso attacco del 7 ottobre 2023 – che ha dato inizio all’attuale stagione di guerra, compresi gli attacchi degli Houthi lungo le rotte del Mar Rosso. L’amministrazione Trump, pur confermando l’impegno valoriale a fianco di Israele, ha mostrato segnali di insofferenza per l’indisponibilità israeliana a facilitare negoziati che possano porre fino a questi venti mesi di conflitto. A ciò si aggiunge la questione nucleare: i colloqui esplorativi in corso tra Washington e Teheran — pur senza una roadmap formale — rafforzano nei vertici israeliani la percezione di una strategia americana poco chiara e soprattutto disposta a concessioni pur di ottenere risultati rapidi.
D’altra parte, comunque, la tregua con gli Houthi ha avuto un’accoglienza positiva nel Golfo. Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, da tempo impegnati a disinnescare il conflitto yemenita, leggono l’intesa come un’opportunità per consolidare la stabilizzazione dei propri confini meridionali. Riad, in particolare, ha investito capitali militari prima e politici poi nel processo di contenimento (non esattamente riuscito) e distensione successiva con gli Houthi. L’avvio degli attacchi contro i navigli occidentali ha prodotto nel regno una consapevolezza che una nuova escalation avrebbe potuto riaccendere le ostilità nel cuore della penisola arabica. La tregua siglata da Trump allontana per ora questo rischio, eliminando l’ipotesi di un riattivarsi di scontri estesi fino al Golfo – almeno per ora. Il quadro è precario, per questo niente può essere escluso definitivamente.
In questo quadro, anche Teheran osserva con attenzione. Il fatto che Washington abbia accettato un accordo diretto con una milizia chiaramente sostenuta dalla Repubblica Islamica — senza richiedere la cessazione degli attacchi a Israele come condizione di partenza o imprescindibile — può essere interpretato come un segnale di apertura politica. Non a caso, la Repubblica islamica avrebbe lavorato diplomaticamente per portare gli Houthi ad accettare di fermare le armi con gli Usa. In prospettiva, il clima potrebbe rafforzare la posizione negoziale dell’Iran nei colloqui sul nucleare o, più in generale, nell’arena regionale. La pressione, sembra suggerire il messaggio americano, può ottenere risultati diplomatici; allo stesso tempo, risultati producono complementarità. Ma è un messaggio ambiguo: rischia infatti di incoraggiare ulteriori escalation da parte dei proxy iraniani, convinti magari che l’azione militare possa essere uno strumento efficace per forzare reazioni e infine concessioni.
Il fragile equilibrio tra rassicurazione e ambiguità è il tratto distintivo di questa fase diplomatica, che si estende oltre alla dimensione armata, toccando la vera posta in gioco: la sostenibilità economico-strategica del corridoio indo-mediterraneo, principale arteria marittima tra Asia ed Europa. L’accordo bilaterale, pur riducendo il rischio di scontri diretti tra Washington e Ansarallah, non ha ripristinato le condizioni di sicurezza necessarie a rilanciare il traffico commerciale nel Mar Rosso.
Dal novembre 2023, la minaccia Houthi ha alterato profondamente le rotte globali. Centinaia di navi mercantili hanno smesso di attraversare lo stretto di Bab el-Mandeb e il Canale di Suez, optando per la circumnavigazione dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza. Le principali compagnie di navigazione hanno confermato che, nonostante la tregua, non torneranno nel Mar Rosso a breve: lo avevano fatto già quando Israele e Hamas accettarono una pausa momentanea (a marzo), a cui aderirono anche gli Houthi, salvo poi la rottura dell’intesa a Gaza e consequenzialmente nel Mar Rosso. Ora, l’incertezza sulle reali intenzioni Houthi verso navi israeliane o “affiliate” resta troppo alta. C’è poi un ovvio rischio sul targeting.
La deviazione logistica per il Capo di Buona Speranza ha impatti profondi. Le navi che arrivano in Europa da sud-ovest tendono a scaricare nei porti atlantici di Francia, Belgio, Paesi Bassi e Germania, alimentando le catene di distribuzione nord-europee. Di conseguenza, si svuota la funzione di ponte globale svolta finora dal Mediterraneo, in particolare dalla dorsale logistica del Sud Europa. L’Italia, con il suo sistema portuale — da Gioia Tauro a Taranto, da Napoli a Trieste o Genova — rischia di essere esclusa dalla grande partita dei flussi intercontinentali.
Il danno non è solo simbolico, ma sistemico. A venire compromesso è l’intero ecosistema connesso: retroporti, interporti, zone economiche speciali, poli industriali e corridoi ferroviari. La marginalizzazione del Mediterraneo come crocevia Est-Ovest potrebbe ridurlo a bacino locale, utile solo per traffici intra-regionali. Per l’Italia, che ha puntato negli ultimi anni proprio sulla valorizzazione geoeconomica della dimensione marittima, anche come link tra Europa e Asia, si tratta di un colpo potenzialmente strutturale alla propria strategia di posizionamento.
In questo contesto, la sicurezza del Mar Rosso non può più essere letta solo in chiave di deterrenza militare, ma va inquadrata come priorità strategica per l’autonomia economica e logistica europea – proprio perché nell’intesa di Trump sono comprese solo le navi americane (o di società americane). La tutela della navigazione in quell’area è un chiaro interesse europeo e soprattutto nazionale per paesi come l’Italia. E non solo per motivi di sicurezza, ma per la salvaguardia di una centralità geografica che rischia di dissolversi in assenza di risposte sistemiche. Ogni iniziativa volta a ristabilire stabilità e prevedibilità lungo la rotta indo-mediterranea — sia in ambito europeo che multilaterale — va dunque considerata parte integrante della politica industriale e infrastrutturale del Paese. Trump ha deciso, ora occorre osservare le conseguenze.