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Libano: vecchi problemi e sfide per il futuro

Il Libano è al collasso, travolto dalla più grave crisi economica e finanziaria della sua storia. La comunità internazionale promette aiuti in cambio di riforme. Il Governo nazionale da poco inaugurato non sembra, però, offrire grandi novità sul piano politico. Inoltre, i drammatici avvenimenti degli ultimi giorni stanno esacerbando una tensione già presente all’interno di un contesto sociale fortemente instabile.

Un Paese al collasso: precedenti storici

Dopo un momento di scarsa attenzione per le questioni libanesi, dovuta senza dubbio alle preoccupazioni suscitate dal ritiro americano da Kabul e dai seguenti attentati, la grave crisi energetica ha nuovamente riportato l’interesse sul Paese dei Cedri. Data l’importanza del Libano nelle dinamiche regionali, la situazione richiede un’indagine delle gravi problematiche che il Paese si trova a fronteggiare.

Come osservato dal World Bank Lebanon Economic Monitor del giugno di quest’anno, il Libano sta affrontando una delle crisi economiche e finanziarie più gravi, a livello globale, sin dal XIX secolo. Per cercare di comprendere il complesso, quando non intricato, contesto libanese è utile focalizzare l’analisi su tre aspetti principali: quello economico, quello politico e quello geopolitico, strettamente collegati tra loro come le maglie di una catena, che non è possibile separare.

Le travagliate vicende degli ultimi quarant’anni non hanno permesso al Libano di godere di stabilità politica e di solidità economica. Il Paese è stato “inventato” dalla Francia, che lo creò staccando una parte di territorio dalla Siria mandataria, includendovi l’enclave cristiano maronita più la zona costiera e la valle della Beqaa, abitata in prevalenza da musulmani.

Fino al 1958, il Paese ha goduto di una fragile stabilità, ma da allora, e sino almeno al 2006, la storia libanese è stata un susseguirsi di guerre civili, di assassinii politici (1982: Bashir Gemayel, Presidente della Repubblica eletto, cristiano; 2005: Rafiq Hariri, Primo Ministro, sunnita) e di ingerenze straniere: le basi della guerriglia OLP prima, l’invasione israeliana e l’occupazione siriana poi, l’ingerenza dell’Iran tramite Hezbollah ancora oggi. Senza dimenticare che il conflitto tra il Partito di Dio e Israele continua, in fasi più o meno aperte, e che lo Stato ebraico giudica la presenza del movimento sciita, come una delle minacce maggiori alla propria sicurezza. Tra i due Paesi esiste anche un contenzioso territoriale sulle cosiddette Fattorie di Sheeba, ancora occupate da Israele, ma rivendicate da Beirut.

Per quanto riguarda la Siria, Damasco ha tradizionalmente considerato il Libano come una propaggine naturale del proprio territorio, e ha mantenuto truppe di occupazione nel Paese fino a tutto il 2005, quando i due Paesi hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche. Ancora oggi, però, sia il regime siriano sia l’Iran – altro attore di rilievo per le politiche libanesi, in quanto potenza di riferimento di Hezbollah – mantengono un certo grado di influenza sugli equilibri politici interni, tramite i partiti sciiti Hezbollah e Amal.

Anche l’Arabia Saudita esercita un peso rilevante sugli equilibri del Libano, poiché sostiene economicamente e politicamente la fazione sunnita che fa capo a Saad Hariri (figlio di Rafiq, premier libanese assassinato nel 2005), soprattutto in funzione anti-iraniana. Negli ultimi anni, Turchia e Qatar si sono imposti come mediatori per la stabilizzazione interna. A livello internazionale, il Libano mantiene buoni rapporti con il mondo occidentale, in particolar modo con alcuni paesi europei come Italia e Francia, i due stati più attivi all’interno della missione United Nations Interim Force in Lebanon (UNIFIL).

L’assetto istituzionale libanese nasce dagli Accordi di Ta’if, firmati nel 1989 da tutte le forze politiche nell’omonima città dell’Arabia Saudita, alla fine della Guerra Civile. Benché oggetto di critiche, il patto costituisce un paradigma di regolamentazione di un sistema politico caratterizzato da una forte frammentazione interna. Il Libano si presenta come una Repubblica Parlamentare, in cui gli equilibri istituzionali sono regolati dalla ripartizione del potere su base etnica e religiosa. Secondo tale schema, di norma, il Presidente della Repubblica è un cristiano maronita, il Primo Ministro un musulmano sunnita e il Presidente del Parlamento un musulmano sciita. Inoltre, all’interno del Parlamento unicamerale, nel quale siedono 128 membri, i seggi sono assegnati in maniera tale da garantirne sempre 64 alla comunità cristiana e altrettanti a quella musulmana (sciiti e sunniti insieme).

Gli avvenimenti più recenti

Sono stati però gli avvenimenti più recenti a determinare l’attuale situazione. In un quadro economico già fortemente depresso e di grave crisi fiscale, nel 2019 il governo ha annunciato di voler introdurre una tassa sulle telefonate effettuate con WhatsApp, Facebook Messenger e FaceTime, nel tentativo di raccogliere nuovi fondi. L’annuncio è stato come “l’ultima goccia” in un bicchiere già pieno sino all’orlo: manifestazioni violente contro il provvedimento sono scoppiate in tutto il Paese. Forse per la prima volta, tutte le fazioni divise in base all’appartenenza religiosa si sono trovate unite nel chiedere a gran voce la completa sostituzione della classe dirigente, considerata corrotta e concentrata più sugli interessi del proprio clan, che non su quelli del Paese.

Nel marzo 2020 è stato annunciato il default finanziario della Banca Centrale Libanese e, da allora, la situazione non ha fatto che precipitare, acuendo i numerosi problemi già esistenti. Nell’agosto dello stesso anno, l’esplosione avvenuta nel porto di Beirut ha segnato il punto di non ritorno verso il collasso economico e politico. Le vittime sono state 200, 6 mila i feriti e decine di migliaia gli sfollati. Il danno economico stimato è stato di 4 miliardi di dollari, dal momento che il porto era il principale punto di arrivo delle importazioni dall’estero.

Si è trattato, inoltre, di un turning point politico, in quanto il governo libanese ha dimostrato una totale incapacità nel vigilare sui depositi di esplosivi nel centro della città e, nonostante il tempo trascorso, non ha ancora individuato i responsabili del grave incidente.

Già nel 2019 con l’ancoraggio della lira libanese al dollaro, la moneta nazionale aveva perso l’80% del valore e quest’anno ha visto un’ulteriore riduzione del 40%. La concomitante crisi del sistema bancario ha avuto conseguenze devastanti sui risparmi dei cittadini e, nonostante i ripetuti interventi del Fondo Monetario Internazionale, con cui il Paese ha un debito di 10 miliardi di dollari, oggi il Libano si trova di fronte al grave rischio dell’esaurimento delle risorse, con conseguente default statale.

Secondo le stime della Banca Mondiale, più della metà della popolazione è probabilmente al di sotto della linea di povertà nazionale, anche se la mancanza di dati ufficiali rende assai difficile prevedere in modo ragionevole il reale stato di povertà nel Paese. Il PIL è crollato dai circa $55 miliardi del 2018 ad una cifra stimata intorno a $33 miliardi nel 2020.

In un Paese dove il 10% delle famiglie più facoltose possiede il 70% della ricchezza, i prezzi sono aumentati del 367% in un anno e chi viene pagato con la valuta nazionale - la maggior parte della forza lavoro - ha subito una diminuzione del proprio potere d’acquisto tale da impedire l’accesso ai beni di prima necessità. Questa situazione può costringere le famiglie più povere a fare ricorso a strategie estreme, come prendere in prestito denaro a tassi di estorsione improponibili e vendere i propri beni, solo per potersi permettere un piatto di cibo. Livelli di povertà tanto alti possono avere conseguenze durature sullo sviluppo e sul ciclo vitale della popolazione. Oltre all’innalzamento vertiginoso dei prezzi del cibo, le file per ottenere carburante sono lunghe chilometri e l’esercito libanese, che non solo controlla alcuni dei confini più sensibili del mondo, ma mantiene anche la pace interna in una società fortemente divisa, ha segnalato di correre il rischio di disintegrazione a causa del mancato pagamento dei soldati.

Le conseguenze della crisi sono visibili soprattutto su quattro dei settori pubblici di base: l’elettricità, la fornitura d’acqua, l’istruzione e i servizi igienico-sanitari. Le promesse forniture di gas egiziano e di elettricità giordana, che passeranno attraverso la Siria, non sono ancora arrivate e quelle di petrolio e benzina donate dall’Iran, e anch’esse transitate in Siria, non sono state sufficienti a generare energia elettrica. Il Libano è rimasto in totale blackout dopo la chiusura delle due principali centrali elettriche pubbliche, al-Zahrani e Deir Ammar. L’esercito ha trasportato 6 milioni di litri di olio combustibile in ciascuna centrale per risolvere il grave problema ma, poche ore dopo il ritorno alla normalità, si è verificato uno scoppio nell’impianto di al-Zaharani, dove sono bruciati 250 mila litri di combustibile. Le cause sono ancora da chiarire.

Per la soluzione della crisi energetica, l’Iran aveva concordato con Hezbollah l’invio di petrolio. Per aggirare le sanzioni USA contro le importazioni di materie prime e di prodotti dall’Iran, il carburante era stato stoccato in Siria e trasportato da lì via terra. Lo stesso è avvenuto per il gas egiziano e per l’elettricità giordana. Il coinvolgimento della Siria e dell’Iran nei rifornimenti che, alla fine, sono risultati inutili, ha avuto però conseguenze rilevanti: Hezbollah è stato fortemente criticato per essersi comportato, negli accordi intervenuti con l’Iran, come uno stato nello stato, ma ha comunque visto crescere l’appoggio della popolazione. La disponibilità della Siria - anch’essa oggetto delle sanzioni statunitensi - a far transitare gas, elettricità e petrolio sul proprio territorio viene interpretata da alcuni analisti come un tentativo del Presidente Assad di rompere l’isolamento internazionale.

La Pandemia

Alla crisi economico-finanziaria si è aggiunta quella derivante dalla Pandemia. L’esplosione dell’epidemia Covid-19 si aggiunge ad una vulnerabilità complessa del Paese, con ripercussioni evidenti per le fasce più deboli della popolazione.

La sanità è prevalentemente privata e soggetta alle logiche confessionali: gli ospedali sono, in altri termini, gestiti e finanziati dai partiti politico-settari del Paese. Questo comporta una serie di squilibri, tra i quali spicca la negazione dell’accesso ad alcuni ospedali a cittadini di determinate confessioni religiose, ma anche a coloro che non hanno le risorse sufficienti a coprire le spese per l’assistenza sanitaria.

Come rilevato dal rapporto dell’Osservatorio di politica internazionale (luglio 2020), di cui fanno parte il Senato, la Camera, e il Ministero degli Affari Esteri, «oltre al controllo degli ospedali, le comunità e i partiti religiosi si spartiscono anche la fornitura di vaccini, rendendo il Libano uno dei pochissimi Paesi al mondo che ha delegato parte dell’approvvigionamento vaccinale a imprenditori privati». Secondo la Banca Mondiale, l’inadeguatezza nel fornire una soluzione alle varie crisi in atto è il risultato sia di una carenza di consenso politico su iniziative efficaci, sia, in modo speculare, di un consenso nella difesa di un sistema economico da bancarotta, che per un così lungo periodo ha beneficiato soltanto la minoranza della popolazione.

La problematica situazione demografica, il confessionalismo e le ricadute politiche

La ripartizione del potere su base settaria continua ancora oggi, anche se il peso demografico delle comunità è cambiato. I dati disponibili variano molto, anche perché nel Paese l’ultimo censimento ufficiale risale addirittura al 1932, e tutte le maggiori fonti, tra cui gli UN World Population Prospects e la World Bank, segnalano che i dati ufficiali non sono affidabili.

In generale, comunque, su una popolazione stimata tra 5 milioni e mezzo (CIA World Factbook) e 6 milioni e 800 mila persone (Nazioni Unite), la maggioranza sarebbe musulmana (stimata tra il 54% e il 60%), con lievi differenze tra i sunniti e gli sciiti. I cristiani, invece, in maggioranza maroniti, sarebbero fra il 33,7% e il 40,5%. Anche se le variazioni non sono di poco conto, ciò che ci sembra utile rilevare è proprio il numero maggioritario dei musulmani, che implica una sempre maggior instabilità all’interno di un Paese il cui assetto istituzionale ed economico è basato invece, storicamente, sulla preponderanza dei maroniti.

Il quadro è ulteriormente complicato dalla presenza di 1 milione e mezzo di profughi siriani, di 18.500 profughi provenienti dall’Etiopia, dall’Iraq, dal Sudan e da altri Paesi, e dai più di 200 mila profughi palestinesi (dati UNHCR). La presenza di tali profughi che, comunque, non hanno peso politico, rende ancora più difficile la gestione della crisi e contribuiscono al crearsi di uno “scontro tra poveri” su base etnica che vede la popolazione libanese impoverita schierarsi contro le comunità dei rifugiati.

La risposta della politica ai problemi economico-finanziari, come in altre occasioni nella recente storia del Libano, è stata lenta e basata sulla difesa delle prerogative e delle posizioni di potere di breve termine. Purtroppo, non si tratta di uno scenario inedito. La spartizione del potere tra comunità religiose attraverso “quote” parlamentari o cariche istituzionali assegnate sulla base della comunità confessionale di appartenenza, è il segnale di una pratica in base alla quale le élite politicizzano la religione, in una logica che sfrutta i network privati per distribuire favori e welfare informale su base settaria. Tale sistema mira a “bloccare” il consenso elettorale e ad alimentare il potere dei partiti confessionali tradizionali.

I partiti politici hanno tradizionalmente mantenuto la lealtà dei cittadini, attraverso sistemi paralleli di patrocinio settario politico (dall’allocazione di posti pubblici e la fornitura di servizi essenziali, quali cure ospedaliere a membri del gruppo confessionale di riferimento, al finanziamento privato di varie attività commerciali e finanziarie), ma questa possibilità è venuta meno con la diminuzione degli investimenti esteri, da cui gran parte della ricchezza privata deriva.

I nomi stessi dei politici tuttora in campo sono un esempio molto chiaro della débacle. Il Presidente della Repubblica Michel Aoun e il Presidente del Parlamento Nabih Berri sono politicamente attivi da più di quarant’anni. Saad Hariri, incaricato di formare un nuovo governo dopo l’esplosione al porto di Beirut e le dimissioni di Hassan Diab, era già stato primo ministro due volte e proviene da una famiglia ben nota in Libano: suo padre Rafik fu il fondatore del partito sunnita Movimento il Futuro e anche lui Primo Ministro. Hariri non è riuscito a formare il governo e il 15 agosto 2021 ha rinunciato all’incarico.

Lo scorso 10 settembre, Najib Mikati è riuscito a formare il Governo, dopo quello che sembra essere stato un braccio di ferro con il Presidente Aoun, che intendeva avere 9 ministri anziché 8, così da poter controllare il nuovo esecutivo, qualora lo avesse ritenuto opportuno. I Ministri saranno invece 24, 8 per ogni schieramento politico: quota-parte di Aoun e dei suoi alleati dell’Alleanza Armena Rivoluzionaria e il druso Talal Arslane, quota-parte sciita (Amal e Hezbollah con i loro alleati), quota-parte sunnita (sunniti e PSP di Walid Jumblatt).

Mikati è uno degli uomini più ricchi del Libano, sunnita, già Ministro dei Lavori pubblici e dei Trasporti e Capo del Governo nel 2005 e nel 2011. Nel Paese è considerato uno dei simboli del potere e, a quanto risulta, ha un bassissimo indice di popolarità. Alla vigilia della sua nomina a presidente incaricato, ci sono state manifestazioni fuori dalla sua casa di Beirut, ed è stato accusato di corruzione e nepotismo.

Gli interventi della comunità internazionale

La Conferenza Internazionale dei Donatori, organizzata dal Presidente francese Macron, che si è svolta il 4 agosto di quest’anno (cui ha partecipato anche l’Italia), organizzata congiuntamente dalla Francia e dalle Nazioni Unite, ha raccolto centinaia di milioni di dollari in aiuti urgenti per il Libano. Alla fine, l’importo degli impegni finanziari si è attestato a circa 370 milioni di dollari (312,3 milioni di euro), a cui si sono aggiunte promesse di “aiuti sostanziali in natura”, ha affermato l’ufficio di Macron. Il Presidente francese ha dato il via agli impegni dei donatori con una promessa di quasi 100 milioni di euro da parte del suo Paese, e di una donazione di 500 mila vaccini contro il Covid-19. Macron ha avuto parole dure per i leader libanesi, accusandoli di «lasciare deliberatamente che le cose marciscano» e di mettere i loro «interessi individuali e di parte al di sopra degli interessi del popolo libanese».

L’impegno finanziario francese è stato seguito da quello di Biden, che ha annunciato «quasi 100 milioni di dollari [84,4 milioni di euro] in nuova assistenza umanitaria» per il Libano, ma ha affermato che «nessuna quantità di assistenza esterna sarà mai sufficiente se i leader libanesi non si impegnano a svolgere il duro ma necessario lavoro di riforma dell’economia e di lotta alla corruzione».

Due precedenti Conferenze dei Donatori, lo scorso anno, avevano raccolto 280 milioni di euro in aiuti di emergenza. Sebbene l’erogazione di questi fondi sia incondizionato, nell’ultima conferenza si è sottolineato che la comunità internazionale non darà il via a un piano di salvataggio più ampio, fino a quando il Libano non si impegnerà a combattere la corruzione e a intraprendere riforme economiche.

Le questioni geopolitiche e le presenze “esterne”

I problemi politici, sociali ed economici attuali del Libano non sono indipendenti dalle questioni geopolitiche. Il Libano si trova al centro della ridefinizione degli equilibri regionali, con particolare vulnerabilità rispetto ai due stati confinanti, la Siria e Israele.

Da una parte, la persistenza del regime di Assad in Siria, nonostante la guerra in corso dal 2011, ha reso Hezbollah – alleato di Damasco – più forte all’interno del Paese, acuendone le tensioni. Dall’altra, le crescenti tensioni tra Hezbollah e Israele pongono il Libano di fronte all’eventualità di un possibile nuovo conflitto. Hezbollah partecipa ufficialmente dal 2013 alla guerra in Siria, accanto all’Iran e al regime di Damasco. Il suo successo militare contro i gruppi jihadisti sunniti dell’opposizione in Siria e al confine con il Libano, si è tradotto in un crescente consenso popolare ed elettorale per il “Partito di Dio”, che ha nel frattempo rafforzato l’alleanza con il partito cristiano, guidato da Michel Aoun. La sua carica presidenziale rafforza il peso dell’asse vicino a Hezbollah nelle istituzioni-chiave dello Stato libanese.

Lo Stato ebraico ha criticato in particolare la ‘normalizzazione’ politica di Hezbollah in Libano. Tuttavia, se un conflitto a bassa intensità tra Israele e Hezbollah è già in corso sul territorio siriano, Hezbollah è finora riuscito a scongiurare una nuova guerra con Israele sul territorio libanese. Inoltre, la crisi del Paese dei Cedri lo ha reso vulnerabile a nuove forme di ingerenza esterna.

Dal punto di vista francese, Macron ha organizzato rapidamente, e con una certa sfrontatezza, il suo arrivo a Beirut, dopo l’esplosione dello scorso anno. Altrettanto rapidamente ha organizzato la Conferenza dei Donatori, permettendosi di dare una vera e propria strigliata ai governanti libanesi. Per la Francia, il Libano è, tradizionalmente, una finestra sul Medio Oriente e il suo veloce intervento segnala la volontà della République di essere un attore primario in campo. Da non sottovalutare, anche la trionfale accoglienza riservata al Presidente francese dalla popolazione del Libano, e la petizione per riportare il Paese sotto il controllo della Francia, che ha raggiunto quasi le 60 mila firme.

Ankara, da parte sua, sembrerebbe interessata ad una penetrazione in Libano attraverso il soft-power. Secondo numerose fonti, i fondi turchi nel Paese dei Cedri sarebbero destinati a borse di studio, corsi di lingua, attività religiose e culturali, sostegno alle moschee. Presto verrà anche inaugurato a Sidone un ospedale turco. La Turchia è, inoltre, tra i primi Paesi in Libano che forniscono aiuti per l’istruzione superiore.

Anche la Cina e la Russia dimostrano il proprio interesse per il Paese dei Cedri, scoprendo la volontà di riempire i vuoti derivanti dall’allontanamento degli USA dal Medio Oriente.

La ricostruzione del porto di Beirut attrae costruttori, i cui Paesi potrebbero trarne vantaggi strategici ed economici. Da una parte, infatti, il porto, per la sua posizione geografica, potrebbe assicurare una maggiore influenza nel Mediterraneo orientale, ricco di gas; dall’altra, come fanno notare alcuni esperti, dal momento che è probabile «che le autorità libanesi adottino uno schema di costruzione, gestione e trasferimento a società private per salvare l’infrastruttura, chiunque risulterà responsabile della sua ricostruzione sostanzialmente finirà per controllarlo e per essere il principale beneficiario delle sue attività anche in futuro».

Subito dopo l’esplosione dello scorso anno, diversi Paesi si sono offerti di ricostruire il porto di Beirut, primi fra tutti: Kuwait, Turchia e Francia. Anche la Cina, almeno secondo le informazioni disponibili, si sarebbe mostrata inizialmente interessata a inserirsi negli appalti di ricostruzione. Come notano numerosi analisti, «Pechino detiene già il controllo di diversi porti della regione del Mediterraneo orientale» (Alessandria in Egitto, Haifa in Israele, il Pireo in Grecia, nonché il porto di Tripoli nello stesso Libano). «Il crescente interesse mostrato da Pechino nei confronti del Libano -si nota in un’interessante analisi dell’IFI Security statunitense - si inserisce nel contesto della Belt and Road Initiative (BRI), o Via della Seta, volta a intensificare l’attività politica ed economia di Pechino anche nella regione mediorientale».

Da un punto di vista politico, il crescente inserimento della Cina nel contesto del Levante Mediterraneo rappresenta evidentemente una sfida all’Occidente, il quale vanta un partenariato storico con i Paesi arabi e non della sponda sud. Per quanto concerne il fronte libanese, il possibile inserimento della Cina nel Paese potrebbe essere favorito dall’azione politica e strategica soprattutto del movimento sciita Hezbollah.

Per quanto riguarda la Russia, negli ultimi anni ha iniziato a giocare un ruolo maggiore in Libano, dopo l’intervento di Mosca nella guerra in Siria. Da notare, per quanto riguarda l’energia, che soprattutto dopo la scoperta di giacimenti sottomarini di gas nel Bacino del Levante, che la compagnia russa Novatek è parte del consorzio, a cui appartengono anche la Total francese e la nostra ENI, che su incarico di Beirut esplora i fondali marini della regione alla ricerca di petrolio e di gas. Come detto, Mosca è uno dei numerosi Paesi interessati alla ricostruzione del porto di Beirut.

Il ruolo di Hezbollah nel contesto dell’instabilità libanese aumenta la centralità del Paese nelle mire strategiche iraniane. Nonostante non sia lo Stato libanese in sé ad avere rapporti diretti con l’Iran, i finanziamenti iraniani sono penetrati sia nella comunità sciita, sia nell’economia dell’intero Libano. L’annunciato arrivo di petroliere iraniane ne è una dimostrazione. Inoltre, come fa notare il citato report dell’Osservatorio di Politica Internazionale: «la crescente attività di forze iraniane sul territorio ha trasformato il Paese in una pedina nella rivalità tra Arabia Saudita e Iran, soprattutto in merito a numerosi traffici illegali condotti in Libano. Infatti, parallelamente ai beni essenziali che Hezbollah riceve dall’Iran, esiste un altrettanto sviluppato traffico di stupefacenti e di armi che parte dal sud del Paese dei Cedri per arrivare in Siria e poi nei Paesi del Golfo».

Il Libano e l’Italia

Per quanto riguarda l’Italia, le relazioni bilaterali tra il nostro Paese e il Libano continuano ad essere forti. Siamo tra i principali partner commerciali del Paese dei Cedri, presenti militarmente in Libano da 38 anni, sia con UNIFIL (più di 1000 soldati italiani e 4 generali italiani solo negli ultimi 10 anni di missione) che con MIBIL (Missione Bilaterale Italiana in Libano).

Sul piano della cooperazione, il Libano è uno dei principiali Paesi nostri beneficiari, e la nostra presenza è capillarmente diffusa, sia in termini geografici, che di aree d’intervento: restauro e manutenzione del patrimonio archeologico, infrastrutture, interventi in campo sanitario, educativo e sostegno umanitario, sia ai libanesi che ai rifugiati siriani e palestinesi. Quello italiano rappresenta il contributo più rilevante alla forza multinazionale schierata dalle Nazioni Unite in Libano. Il nostro impegno è apprezzato e riconosciuto da tutti gli attori in gioco. La grande influenza costruita tramite i nostri militari nel corso degli anni può essere sfruttata da Roma, per svolgere un ruolo da protagonista in una delle aree più strategicamente rilevanti del Mediterraneo.

Lo sforzo militare italiano in Libano sembra inquadrarsi in una strategia, che vede il nostro Paese sfruttare la partecipazione militare a UNIFIL per raggiungere diversi obiettivi. Uno riguarda direttamente il Libano, Paese nel quale l’influenza di Roma è cresciuta in maniera rilevante dal 2006, e nei cui confronti il nostro Paese ha maturato grandi crediti nel corso degli anni. Il Paese dei Cedri rappresenta un territorio di grande rilevanza strategica: un’area potenzialmente utile all’Italia per essere protagonista in diversi contesti, legati in maniera diretta o indiretta a quanto accade nel Libano. A ciò bisogna aggiungere che il Libano, grazie alla sua posizione geografica, potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella partita per il gas levantino.

L’Italia resta comunque una presenza costante nel Paese, con la sua eccellente capacità di mediazione in situazioni di tensione. Come abbiamo già notato, il nostro Paese partecipa alla ricerca di gas, quindi contribuire, con le aziende italiane che si occupano di costruzioni di infrastrutture già presenti e attive in numerosi Paesi, alla ricostruzione del porto di Beirut potrebbe dimostrarsi vantaggioso.

Conclusioni

È assai difficile prevedere che cosa accadrà in Libano nel prossimo futuro. Le crisi da risolvere sono numerose e di non facile gestione. I libanesi dovrebbero riuscire ad aiutare sé stessi, ma sembra che, nella lunga e tragica storia del Paese, non abbiano ancora imparato a farlo.

Alcuni analisti fanno notare che è necessario il coinvolgimento di attori internazionali, che facilitino il dialogo tra le varie componenti dello scenario politico libanese, così da porre fine alle dispute. Vengono citati da una parte gli accordi Ta’if del 1989, un’intesa negoziata sotto l’egida della Lega Araba e con il tacito consenso degli USA, per porre fine alla guerra civile e promuovere il ritorno alla normalità. Fra i principali punti degli accordi vi furono la modifica delle quote politiche previste per i musulmani dal citato Patto Nazionale libanese; l’affermazione della sovranità libanese nel Libano meridionale, all’epoca occupato da Israele; il ritiro delle milizie non governative, con riferimento soprattutto a quelle di Hezbollah (che sono invece ancora attivissime, spesso in opposizione all’esercito regolare); la legittimazione della presenza siriana come garante della pace, limitata tuttavia a un periodo di due anni (il ritiro sarebbe invece avvenuto solo nel 2005). E quelli di Doha del 2008, svoltisi ancora una volta grazie allo sforzo della Lega araba e degli Stati Uniti, che hanno fermato una potenziale guerra civile. Entrambi gli accordi, tuttavia, non sembrano aver avuto grandi risultati, visti i fatti attuali.

Il 10 settembre scorso, come notato, è nato un nuovo governo. Ora almeno il Paese potrà negoziare la sua salvezza con il Fondo Monetario Internazionale, visto che senza governo non era possibile farlo. Ma restano i problemi tra i vari gruppi confessionali e all’interno di essi. I “vecchi” nomi della politica che ancora figurano nell’esecutivo, poi, sono un segno preoccupante, da una parte, della mancanza di una classe politica giovane, che possa utilizzare nuovi metodi per la soluzione di gravissimi problemi incancrenitisi nel tempo e, dall’altra, della mancanza completa di volontà, da parte delle vecchie leve portatrici di interessi per lo più di parte, a rinnovare il proprio Paese.

Sarebbe opportuno che la società civile libanese si impegnasse maggiormente in questo sforzo, seppure non facile. Resta la speranza che l’assoluta necessità di aiuti economici stranieri spinga la classe politica interna a trovare un accordo per iniziare il lento cammino di riorganizzazione e di ripresa. Forse, in questo senso, la minaccia internazionale “niente aiuti senza riforme” sarà utile.

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